venerdì 16 febbraio 2018

LETTERA AL MIO GIUDICE



Georges Simenon
LETTERA AL MIO GIUDICE
Adelphi
2003, brossurato
206 pagine, 13.50 euro


Mi è parso di riconoscere gran parte delle tematiche de "L'uomo che guardava passare i treni", che Simenon scrisse nel 1938, in questa "Lettera al mio giudice" che invece è del 1946. In ambedue i romanzi il protagonista è un uomo dalla vita tranquilla che improvvisamente si ribella alle convenzioni sociali e sceglie di essere se stesso. O meglio, per usare una metafora contenuta nella "Lettera", di ritrovare la propria ombra. Charles Alavoine, medico di campagna, per due volte si sposa (la seconda dopo essere rimasto vedovo della prima moglie morta di parto) in ossequio a ciò che tutti si aspettano da un uomo come lui: che abbia un lavoro dignitoso, una consorte, dei figli. E lui si adatta, pur essendo insoddisfatto della propria vita. Non è che non veda vie di fuga: non considera l'ipotesi che le cose possano andare diversamente. Però si accorge sempre di più che gli manca l'ombra, come se la sua esistenza fosse senza sostanza, non vera. Finché non scatta una molla che cambia le cose. Charles conosce per caso una ragazza, Martine, di cui si innamora follemente, al punto da non concepire più come possibile la vita senza di lei. La cosa manda a monte il suo matrimonio con la borghesissima seconda moglie Armande, con cui da tempo non ha più neppure rapporto sessuali, che pure si dice disposta a tollerare che il marito sfoghi i propri bisogni con l'altra a patto che ciò avvenga discretamente e occasionalmente al di fuori delle mura domestiche, in modo da salvare le apparenze. Armande non ha capito che per Charles non si tratta di quello: si tratta della propria vita, del diritto di essere felice. Ci sono pagine molto belle che esprimono il concetto di una esistenza che deve assomigliare a chi la vive, e che spiegano cos'è l'amore. "Il bisogno di una presenza, anzitutto. Il bisogno necessario, assoluto, vitale come un bisogno fisico. Poi la smania di spiegarsi, a noi stessi e all'alto, perché siamo così estasiati, così consapevoli di essere di fronte a un miracolo. Abbiamo tanta paura di perdere quella cosa in cui non avevamo mai sperato, che il destino non ci doveva, che forse ci è stata donata per caso, da sentire continuamente il bisogno di rassicurarci e, per rassicurarci, capire". Purtroppo la forza dirompente della scoperta di come l'amore possa cambiare la vita, porta a degli scompensi in Charles. Il crollo delle precedenti certezze, che pure lui rifiuta con piena consapevolezza, è destabilizzante. Martine è una ragazza dal passato torbido. Probabilmente gli anni in cui il romanzo fu scritto non permisero a Simenon di essere più esplicito, o è lo stesso Charles, nel scrivere la sua Lettera al giudice (tutto il romanzo è costruito come una missiva scritta dal carcere), a essere reticente, ma si accenna di continuo all' "altra Martine", quella della vita prima del suo incontro con il medico. Ragazza dolce, docile, facile, che attira gli uomini da cui veniva sfruttata, manipolata, lusingata, e a cui piaceva trarre rassicurazioni dai desideri altrui, Martine forse è stata una prostituta, comunque è passata attraverso esperienze promiscue non meglio specificate. Dal momento in cui Charles se ne innamora, lui la vuole solo per sé. L'idea del suo passato lo manda un bestia e il medico diventa preda di una furia incontenibile - che porterà alla sua perdizione, e a quella della ragazza, che pure accetta il suo destino perché anche lei trova in quell'amore folle una catarsi desiderata. Drammatico e disturbante, soprattutto nel finale. Simenon sempre magistrale. Da questo romanzo è stato tratto il film "Il frutto proibito" (1952), di Henry Verneuil.

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