Leonardo Sciascia
UNA STORIA SEMPLICE
Adelphi
2023, brossurato
80 pagine, 10 euro
Leonardo Sciascia (1921-1989) è sempre un autore straordinario, anche nelle opere meno note. Non saprei dire se “Una storia semplice” (1989) sia un’opera meno nota de “Il giorno della civetta”, sicuramente è più breve. Si tratta dell’ultimo romanzo dello scrittore di Racalmuto, da cui nel 1991 è stato tratto un film con Gian Maria Volonté, che a sua volta recitò per l’ultima volta in una pellicola italiana (era stato tra gli interpreti anche delle versioni cinematografiche di “A ciascuno il suo” e di “Todo modo”). “Una storia semplice”, il cui spunto iniziale venne fornito a Sciascia da un fatto di cronaca (il furto della Natività del Caravaggio, tela rubata a Palermo nel 1969 e mai più ritrovata), è in realtà una storia complicata e, com’è regola nei racconti dell’autore, senza lieto fine. Siamo in una località siciliana, Monterosso, dove il 18 marzo 1989 (la data è citata) viene ucciso, in casa propria, l’ex diplomatico Giorgio Roccella, tornato, senza preavviso e dopo una lunga assenza, nella casa di origine, una masseria in campagna, lasciata in custodia al parroco del luogo, padre Cricco. L’assassino, persona nota alla vittima, inscena un suicidio, commettendo però qualche piccolo errore. Inizialmente, proprio come un caso di suicidio si pensa di archiviare le pratica: una storia semplice, appunto. Una storia che si legge, ammirandone la scrittura puntuale ed essenziale, come se fosse un giallo, e in effetti di un giallo si tratta, con indizi disseminati e particolari rivelatori, dalle tinte noir e persino thriller (drammatica e tesissima la scena del commissario che pulisce la pistola puntandola contro il brigadiere), ma i canoni del genere vengono contraddetti allorché si racconta dell’inefficienza degli esperti della scientifica, della rivalità tra poliziotti e carabinieri, della presunzione dei graduati incaricati delle indagini che si rifiutano di ascoltare il parere degli inferiori di grado che però l’hanno vista giusta, della preferenza degli investigatori verso la pista facile, degli arresti senza senso, degli aggiustamenti della realtà da parte delle istituzioni in favore di versioni di comodo che mettano le magagne a tacere, della connivenza con la malavita delle autorità. Si diceva della scrittura puntuale ed essenziale: l’autore parla della propria, allorché descrive il brigadiere (così definito, senza un nome, per tutto il romanzo) che prende appunti sulla scena del delitto. Leggiamo, infatti: “il fatto di dover scrivere delle cose che vedeva, la preoccupazione, l’angoscia quasi, dava alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato ed acuto finiva con l’essere quel che poi nella rete dello scrivere restava. Così è forse degli scrittori italiani del meridione, siciliani in specie”. Non manca l’ironia, mutuata da Pirandello, e basta vedere, come esempio, ciò che si dice degli “esperti scientifici” della questura, che erano, secondo il brigadiere, soltanto dei “privilegiati, non avendo fino ad allora esperienza di un solo caso in cui costoro avessero dato un contributo risolutivo, di confusione piuttosto”. Un piccolo gioiello, di poco spessore soltanto quanto a numero di pagine.
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