William Shakespeare era bisessuale? Forse sì. Pare infatti che molti dei suoi sonetti siano stati scritti non solo per la famosa (e misteriosa) Dama Bruna, ma anche per il conte di Southampton, un nobile giovane e bello che, a detta di alcuni, era anche amante del Grande Bardo. Ora, la cosa non dovrebbe scandalizzare nessuno - di certo, non me. Però, è anche vero che i tempi che stiamo vivendo sembrano all'insegna, dopo il passaggio del ciclone sessantottino, di un rinnovati moralismo. Sono spariti i topless dalle spiagge e i nudi dai film, c'è chi vorrebbe togliere i corpi femminili dalle pubblicità (per pudichi che siano), chi si risente per i cortei del gay pride, chi interroga in tribunale questa o quella modella o soubrette chiedendo particolari della sua vita sessuale, chi denuncia gli autori di fumetti come causa prima della depravazione della gioventù, chi vorrebbe far indossare il saio alle Veline, chi censura il concorso di Miss Italia. Ai tempi di Shakespeare le cose non dovevano essere molto diverse. L'esuberanza sessuale del poeta e commediografo provocò le stesse invidie, cattiverie, maldicenze, attacchi, accuse e pettegolezzi dei bigotti che purtroppo suscitano ancora oggi certe cose. Con la differenza che sono passati alcuni secoli e insomma, i moralisti potrebbero anche aver capito che sarebbe l'ora di finirla di sbirciare nelle vite altrui e lasciare che, almeno a letto, finché si tratta di adulti consenzienti, ognuno si comporti come meglio crede. Shakespeare, tuttavia, redasse una sferzante risposta a chi si occupava della propria condotta morale. E' contenuta nel suo sonetto 121, attualissimo e illuminante ancora oggi sulla psicologia dei moralisti.
Scrive a questo proposito il critico letterario Harold Bloom: "Questi versi rappresentano l'espressione più potente nella letteratura in lingua inglese di un individuo condannato per le sue scelte erotiche dagli 'occhi corrotti' degli altri, che sono loro stessi 'storti', vale a dire disonesti, e avrei voluto che la poesia venisse letta più volte in televisione durante la recente orgia nazionale di virtù scandalizzata cui hanno dato vita mezzibusti e membri del Congresso. Ne consigliamo la lettura al presidente William Jefferson Clinton". Già, Bill Clinton avrebbe dovuto difendersi proprio recitando Shakespeare, invece di cospargersi il capo di cenere e recitare la parte del balbettante fedifrago.
Il sonetto (che poi proporrò per intero per i più curiosi, anche in inglese) comincia con due versi che sono quasi un aforisma (la traduzione è mia): "Meglio essere degenere, che soltanto sembrarlo / se tanto, anche se non lo sei, ti accusano d'esserlo". E i secondi due versi non sono meno ficcanti: "Vano sarebbe ogni piacere che fosse giudicato giusto / non perché così lo senti tu, ma perché così lo giudicano gli altri". Già... stupido comportarsi non secondo ciò che si sente, ma per timore del giudizio altrui, e solo per quello. E poi si chiede il poeta: "E perché mai dovrebbero gli occhi falsi e corrotti degli altri / sputare sentenze sul mio sangue pieno di vita? E perché ci sono spioni dei miei errori che sbagliano più di me / ma si arrogano il diritto di giudicare errato quel che io credo giusto?"
Il mondo è pieno di gente meschina che sparge calunnie, che si vendica, che odia, che perseguita, che è arrogante e prepotente, che denigra, che ruba, che censura, che fa violenza domestica, che è gretta e che è meschina, tanto per tenerci sulle cose da poco, ma pretende di sputare sentenze sulla condotta morale, soprattutto di letto, degli altri. Ed ecco un verso potentissimo, la liberatoria autoaffermazione di sè: "No, io sono quel che sono! E quelli che puntano il dito / contro i miei eccessi, fanno il conto dei propri". No, I am that I am, and they that level / at my abuses reckon up their own. Bellissimo quell' I am that am! Io sono quel che sono. Ognuno di noi dovrebbe sentirsi libero di essere quel che è, senza paura degli sputasentenze. Infatti: "Potrei essere io il diritto e loro gli storti!" E per finire: "Non mi interessano i loro immondi pensieri / a meno che non vogliano dire, a danno di tutti / che ogni uomo è comunque malvagio e nella malvagità ci sguazza". Applausi.
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Meglio essere degenere, che soltanto sembrarlo
se tanto, anche se non lo sei, ti accusano d'esserlo
Vano sarebbe ogni piacere che fosse giudicato giusto
non perché così lo senti tu, ma perché così lo giudicano gli altri.
E perché mai dovrebbero gli occhi falsi e corrotti degli altri
sputare sentenze sul mio sangue pieno di vita?
E perché ci sono spioni dei miei errori che sbagliano più di me
ma si arrogano il diritto di giudicare errato quel che io credo giusto?
No, io sono quel che sono! E quelli che puntano il dito
contro i miei eccessi, fanno il conto dei propri.
Potrei essere io il diritto e loro gli storti!
Non mi interessano i loro immondi pensieri
a meno che non vogliano dire, a danno di tutti
che ogni uomo è comunque malvagio e nella malvagità ci sguazza.
'Tis better to be vile than vile esteemed
when not be receives reproach of boeing.
And the just pleasure lost, which is so deemed
not by our feeling but by others' seeing.
For why should others' false adulterate eyes
give salutation to my sportive blood?
Or on my frailties why are frailer spies
which in their wills count bad what I think good?
No, I am that I am, and they that level
at my abuses reckon up their own;
I may be straight though they themselves be level
By their rank thoughts my deed must not be shown
unless this general evil they maintain
all men are bad and in their badness reign.
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