Alessandro Bilotta
Sergio Gerasi
ETERNITY – LA MORTE E' UN DANDY
Sergio Bonelli Editore
2022, cartonato
72 pagine, 17 euro
Essendo del mestiere (faccio lo sceneggiatore di professione), quando leggo un fumetto mi viene istintivamente di pensare una fra queste tre cose, a seconda dei casi: avrei saputo scriverlo anch’io, oppure: io lo avrei scritto meglio, oppure: io non sarei mai riuscito a scriverlo. Probabilmente la terza eventualità è quella che capita più spesso, ma resta il fatto che io a un personaggio come Alceste Santacroce non ci sarei mai arrivato. Di fronte al primo volume della serie “Eternity” l’ho letto una prima volta incredulo tavola dopo tavola, tornando spesso indietro per capire se avevo compreso bene, e alla fine, richiuso il volume, l’ho riaperto e l’ho riletto da capo, rimanendo sbalordito dalla seconda lettura quanto dalla prima. A volte si spreca l’aggettivo “capolavoro” per qualcosa di cui, insomma, ci sarebbe da discutere. Nel caso de “La morte di un dandy”, invece, credo proprio che non si possa fare a meno di usarlo. Il problema è riuscire a spiegarlo e giustificarlo, inserendo, come ogni bravo recensore dovrebbe fare, l’opera in un contesto, in una produzione di qualcosa che gli somigli, in una appartenenza. In questo caso è difficile riuscirci. Forse bisogna partire dalla prefazione di Alessandro Bilotta, il quale non parla dell’opera ma di se stesso e il cui senso è raccontare la propria non appartenenza, a partire da una sindrome dell’abbandono che lo affligge: “Ho cercato a lungo dei maestri, soprattutto nel mio mestiere, una figura che si è andata spesso confondendo con quella del padre, forse rifà capolino l’abbandono; li ho cercati, ma non ne ho trovati, potrebbe c’entrare con quel discorso di non appartenenza. A ogni modo ho dovuto quindi imparare a fare da me e, se all’inizio la consideravo una disgrazia, poi mi sono convinto che chi nella vita ha avuto la fortuna di incontrare dei maestri non ha conosciuto la fortuna di non averne incontrati affatto”. Chi ha letto e amato la serie di Mercurio Loi (personaggio che compare in un paio di tavole anche nel primo volume di “Eternity”) sa che cosa aspettarsi da Bilotta: chiede moltissimo al lettore. Siamo di nuovo a Roma, ma non è più quella papalina, anche se non si capisce in quale epoca ci si trovi: in una scenografia vintage convivono elementi degli anni Sessanta e della contemporaneità, come a volerci dire che certe cose non cambiano mai o che viviamo in un eterno presente (o in un eterno passato). Ci sono i bar con i portacenere della Cinzano, le edicole e i giornali di carta; si dice che sono tornate di moda le TV in bianco e nero; ci sono fumetti e fotoromanzi ma anche gli influencer e le installazioni artistiche, ci sono le testate scandalistiche e i carabinieri con la bandoliera, automobili dalla foggia evergreen impossibili da datare, insegne al neon, tavolini sui marciapiedi, ristoranti in cui si può fumare, ma anche cellulari avveniristici. Soprattutto, ci sono tante feste con la cocaina da fiutare in euro arrotolati. Un mondo fatuo e ipocrita in cui Alceste Santacroce sguazza ma con malcelata noia e ostentato disgusto. E’ un dandy cacciatore di scandali sulle cui cronache mondane si basano le fortune di un settimanale di gossip chiamato “L’infinito”, diretto da Quinto Serafini. Costui in passato aveva fatto l’attore in una serie TV (del “servizio pubblico”) interpretando un certo Don Saturnino, educatore ed esempio della fanciullezza tutta, prima di essere scacciato perché tacciato di omosessualità, cosa di cui ride, avendo comunque una montagna di soldi. Alceste potrebbe forse ricordare il Jep Gambardella di "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino, sennonché il personaggio di Bilotta sembra impenetrabile da ogni passione tranne quella per Falco Blu, un eroe dei fumetti di cui ha la collezione completa, l’unica cosa che gli dispiaccia di perdere quando il suo appartamento va a fuoco. Anche quando sembra innamorarsi di Lucrezia, performer e webstar che mostra già però le prime rughe, non esita a violare i segreti del suo cellulare per realizzare un nuovo scoop che porta a far dimettere un ministro. Non che la cosa gli piaccia, lo diverta, lo soddisfi. Pare in preda allo spleen esistenziale, a cui sopravvive chiudendosi in una sorta di atarassia sentimentale, che lo porta a frequentare locali affollatissimi ballando da solo, circondato da piccola gente da cui resta emotivamente lontano. L’imperturbabile Alceste, sigaretta perennemente in bocca o elegantemente tenuta fra le dita, ha l’unica faccia che possa rendere ragione del suo mal di vivere scontato vivendo leggiadro sopra le righe, quella di Jude Law, perfetta nella recitazione resa dallo stupefacente ed elegantissimo Sergio Gerasi, incredibilmente bravo nella ricostruzione di un mondo inesplorato e sincretico efficacemente colorato da Adele Matera, e nel dare mimica agli ipnotici e magistrali dialoghi dell’autodidatta Bilotta.
Sergio Gerasi
ETERNITY – LA MORTE E' UN DANDY
Sergio Bonelli Editore
2022, cartonato
72 pagine, 17 euro
Essendo del mestiere (faccio lo sceneggiatore di professione), quando leggo un fumetto mi viene istintivamente di pensare una fra queste tre cose, a seconda dei casi: avrei saputo scriverlo anch’io, oppure: io lo avrei scritto meglio, oppure: io non sarei mai riuscito a scriverlo. Probabilmente la terza eventualità è quella che capita più spesso, ma resta il fatto che io a un personaggio come Alceste Santacroce non ci sarei mai arrivato. Di fronte al primo volume della serie “Eternity” l’ho letto una prima volta incredulo tavola dopo tavola, tornando spesso indietro per capire se avevo compreso bene, e alla fine, richiuso il volume, l’ho riaperto e l’ho riletto da capo, rimanendo sbalordito dalla seconda lettura quanto dalla prima. A volte si spreca l’aggettivo “capolavoro” per qualcosa di cui, insomma, ci sarebbe da discutere. Nel caso de “La morte di un dandy”, invece, credo proprio che non si possa fare a meno di usarlo. Il problema è riuscire a spiegarlo e giustificarlo, inserendo, come ogni bravo recensore dovrebbe fare, l’opera in un contesto, in una produzione di qualcosa che gli somigli, in una appartenenza. In questo caso è difficile riuscirci. Forse bisogna partire dalla prefazione di Alessandro Bilotta, il quale non parla dell’opera ma di se stesso e il cui senso è raccontare la propria non appartenenza, a partire da una sindrome dell’abbandono che lo affligge: “Ho cercato a lungo dei maestri, soprattutto nel mio mestiere, una figura che si è andata spesso confondendo con quella del padre, forse rifà capolino l’abbandono; li ho cercati, ma non ne ho trovati, potrebbe c’entrare con quel discorso di non appartenenza. A ogni modo ho dovuto quindi imparare a fare da me e, se all’inizio la consideravo una disgrazia, poi mi sono convinto che chi nella vita ha avuto la fortuna di incontrare dei maestri non ha conosciuto la fortuna di non averne incontrati affatto”. Chi ha letto e amato la serie di Mercurio Loi (personaggio che compare in un paio di tavole anche nel primo volume di “Eternity”) sa che cosa aspettarsi da Bilotta: chiede moltissimo al lettore. Siamo di nuovo a Roma, ma non è più quella papalina, anche se non si capisce in quale epoca ci si trovi: in una scenografia vintage convivono elementi degli anni Sessanta e della contemporaneità, come a volerci dire che certe cose non cambiano mai o che viviamo in un eterno presente (o in un eterno passato). Ci sono i bar con i portacenere della Cinzano, le edicole e i giornali di carta; si dice che sono tornate di moda le TV in bianco e nero; ci sono fumetti e fotoromanzi ma anche gli influencer e le installazioni artistiche, ci sono le testate scandalistiche e i carabinieri con la bandoliera, automobili dalla foggia evergreen impossibili da datare, insegne al neon, tavolini sui marciapiedi, ristoranti in cui si può fumare, ma anche cellulari avveniristici. Soprattutto, ci sono tante feste con la cocaina da fiutare in euro arrotolati. Un mondo fatuo e ipocrita in cui Alceste Santacroce sguazza ma con malcelata noia e ostentato disgusto. E’ un dandy cacciatore di scandali sulle cui cronache mondane si basano le fortune di un settimanale di gossip chiamato “L’infinito”, diretto da Quinto Serafini. Costui in passato aveva fatto l’attore in una serie TV (del “servizio pubblico”) interpretando un certo Don Saturnino, educatore ed esempio della fanciullezza tutta, prima di essere scacciato perché tacciato di omosessualità, cosa di cui ride, avendo comunque una montagna di soldi. Alceste potrebbe forse ricordare il Jep Gambardella di "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino, sennonché il personaggio di Bilotta sembra impenetrabile da ogni passione tranne quella per Falco Blu, un eroe dei fumetti di cui ha la collezione completa, l’unica cosa che gli dispiaccia di perdere quando il suo appartamento va a fuoco. Anche quando sembra innamorarsi di Lucrezia, performer e webstar che mostra già però le prime rughe, non esita a violare i segreti del suo cellulare per realizzare un nuovo scoop che porta a far dimettere un ministro. Non che la cosa gli piaccia, lo diverta, lo soddisfi. Pare in preda allo spleen esistenziale, a cui sopravvive chiudendosi in una sorta di atarassia sentimentale, che lo porta a frequentare locali affollatissimi ballando da solo, circondato da piccola gente da cui resta emotivamente lontano. L’imperturbabile Alceste, sigaretta perennemente in bocca o elegantemente tenuta fra le dita, ha l’unica faccia che possa rendere ragione del suo mal di vivere scontato vivendo leggiadro sopra le righe, quella di Jude Law, perfetta nella recitazione resa dallo stupefacente ed elegantissimo Sergio Gerasi, incredibilmente bravo nella ricostruzione di un mondo inesplorato e sincretico efficacemente colorato da Adele Matera, e nel dare mimica agli ipnotici e magistrali dialoghi dell’autodidatta Bilotta.
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