mercoledì 16 dicembre 2015

LA STANZA DEL VESCOVO



LA STANZA DEL VESCOVO
di Piero Chiara
Arnoldo Mondadori Editore

Collana Oscar 
Scrittori del Novecento 
Introduzione di Giancarlo Vigorelli    

2000, 
brossurato

176 pagine  
lire 12.000

La chiave di lettura di questo straordinario romanzo ambientato sul lago Maggiore nell’immediato secondo Dopoguerra, o se si vuole, la metafora che meglio o di più ne riassume il senso, è custodita all’interno della misteriosa cassa conservata da Temistocle Orimbelli nella “stanza del vescovo”, là dove, nella villa della moglie, venivano alloggiati gli ospiti. 
Nel capitolo XVI, scrive Piero Chiara, volgendo a conclusione il suo racconto dopo il suicidio del protagonista: “Il baule venne aperto. Sotto una divisa da capitano c’era una spada d’ordinanza, un pugnale, una machine-pistole tedesca, una rivoltella calibro 9 e un fucile Winchester, avvolti in pezzi di tela. Più sotto, pacchi di lettere di donne legati con lo spago e distinti ognuno con un nome. Ne lessi alcuni: Fanny, Lina, Bruna, Luciana, Marisa. In un angolo del baule, dentro una cappelliera di cuoio, c’era un cappello duro di marca inglese che sul marocchino interno portava stampate in oro le iniziali T.M.O. Fra le altre cianfrusaglie, come ferri di cavallo, talleri di Maria Teresa, pipe e oggettini in avorio, c’era una bussola tascabile, un reggipetto nero, due o tre paia di mutandine femminili, calze lunghe di seta e giarrettiere di velluto d’ogni colore. ‘Ricordi di guerra’, disse il Procuratore della Repubblica. In una specie di grossa tasca, dissimulata nel rivestimento interno del coperchio, vennero rinvenuti dei biglietti di banca a corso legale per il valore di circa un milione di lire. Era tutto quanto l’Orimbelli possedesse in proprio”. 
 



Un baule del genere, probabilmente, è quanto rimarrà di ciascuno di noi dopo la morte, e aprendolo, chi resterà, giudicherà che cosa possedessimo di proprio, che cosa di noi rimarrà a chi resta, il senso intero della nostra vita. Il baule dell’Orimbelli conteneva solo il necessario perché di lui si potesse fare solo del sarcasmo. “Ricordi di guerra”, mutandine e giarrettiere, giacché il protagonista del racconto, costretto a partire soldato, come ufficiale, per evitare uno scandalo, non aveva neppure combattuto ma si era limitato a sedurre con i suoi modi da raffinato marpione una donna dopo l’altra o, più verosimilmente, una donna contemporaneamente a un’altra. Del resto, in vita sua, non aveva fatto nient’altro che vivere alle spalle degli altri, laureandosi solo grazie alle bustarelle elargite da suo padre ai professori, e vivendo fra gli agi garantiti dalla villa della moglie, ma non avendo remore a tessere ogni genere di tresca a danno di chiunque, anche degli amici, senza scrupolo alcuno, ma senza neppure il coraggio di mostrarsi apertamente cinico e disincantato, ma anzi, sempre accampando scuse, inventando bugie, tessendo intrighi. L’ultimo, il più grave, l’omicidio della moglie, organizzato per ottenerne l’eredità e sposare una donna più giovane, e messo in atto sfruttando l’inconsapevole complicità dell’anonimo io narrante, anche lui raggirato in maniera subdola dai modi sfuggenti e insinuanti dell’Orimbelli, e inizialmente incapace di distinguere il vero e il falso, e anzi, portato a sottovalutare la sottile perfidia di un ometto in grado di presentarsi come simpaticamente inoffensivo. 



Piero Chiara è abilissimo nel tratteggiare l’Orimbelli e i suoi modi suadenti e piccolo borghesi, portando lentamente alla scoperta della sua vera e squallida natura, fino all’apertura del baule, e al lascito di una vile eredità di cimeli femminili, armi mai usate, pochi soldi di certo non guadagnati. Il tutto, sullo scenario del lago Maggiore, dipinto in maniera straordinariamente efficace.



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