Paolo Cognetti
LE OTTO MONTAGNE
Einaudi
2017, cartonato,
210 pagine, 18.50 euro
Mi è difficile sia parlar male che parlar bene del romanzo vincitore del Premio Strega 2017. Innanzitutto, già il fatto che abbia vinto quell'agone non depone a favore: sono estremamente diffidente verso i libri - come verso i film - che ottengono il plauso della critica paludata, convinto come sono che Emilio Salgari non avremmo mai vinto lo Strega e Stephen King mai vincerà il Nobel. Tuttavia, ci stati Strega che mi sono piaciuti, da "Tempo di uccidere" di Flaiano (1947) a "L'isola di Arturo" della Morante (1957) fino a "Il nome della rosa" di Eco (1981) - e confesso che gli altri non li ho letti tutti. Fatti miei, senza dubbio: faccio questa premessa, a mio disdoro, per sottolineare come parto prevenuto. Ciò detto, ecco i tanti pro (per passare solo dopo ai pochi, ma sostanziali, contro). Paolo Cognetti scrive come tutti dovremmo imparare a fare: chiaro e pulito, con periodi brevi e frasi essenziali, precise ed efficaci, e un vocabolario mai banale ma neppure inutilmente pretenzioso. Si legge con piacere e ci si lascia volentieri incantare dalla sua prosa. In secondo luogo, è bello leggere una storia di montagna che trasmette amore verso la montagna, che fa capire il fascino arcano dei sentieri, delle vette, dei nevai e il senso della fatica fatta per salire sempre più in alto, verso la solitudine che affratella. Interessante capire il significato del titolo, che fa riferimento a una leggenda nepalese secondo la quale il centro del mondo è una alta vetta sacra circondata da otto montagne più basse disposte ad anello. La domanda è: conosce di più chi dimora sulla cima centrale o chi percorre tutte le altre? Non c'è risposta ma ognuno di noi si divide in uomini che hanno trovato il centro del mondo e non si muovono da lì, e altri che scalano tutte le restanti otto vette. Personalmente mi considero fra questi. Stimolante il ritratto dei personaggi: il padre, la madre, l'amico Bruno. Il padre di Pietro, l'io narrate, cerca in montagna la propria identità che il lavoro in città nega, a lui che viene dalle Dolomiti e, costretto a trasferirsi a Milano, impara ad amare il Monte Rosa, e sfoga sui sentieri caparbiamente percorsi in solitaria in costante sfida verso se stesso, tutte le sue frustrazioni, in polemica anche con il turismo di massa. Bruno, il co-pratogonista, è prima un ragazzo e poi un uomo di montagna, che capisce di avere il suo destino legato a filo doppio con gli alpeggi: lui è quello che resta ancorato al suo personale centro del mondo, e vani sono i tentativi di Pietro di fargli allargare gli orizzonti, salvo poi restare con il dubbio che siano proprio quelli di Bruno gli orizzonti più ampi. Sono sempre affascinato dalle storie in cui due che sono stati amici da bambini si ritrovano poi uomini. Bruno e Pietro ricordano, almeno a me, Mario e l'amico Guido Laremi di "Due di due" di Andrea De Carlo, personaggi anch'essi caratterizzati da un certo disprezzo verso la società e che, a un certo punto, fanno una scelta di vita bucolica. Anche i due finali, per qualche verso si assomigliano. I punti negativi. Pietro, detto Berio, il protagonista, resta un personaggio senza spessore. Di fronte al padre e a Bruno, Pietro, semplicemente, non sa di niente. Non si capisce cosa pensi, cosa voglia, che passioni abbia, perché faccia certe scelte. Con Bruno non parla di sesso, di polita. di Dio, del mondo. A un certo punto litiga con il padre e smette di andare in montagna con lui, ma non si capisce perché. Per anni non lo vede, senza che sia spiegato come mai. Tronca i ponti anche con Bruno, senza un motivo, e poi li riallaccia come nulla fosse, senza una spiegazione. Non vive storie d'amore, non è ben chiaro che lavoro faccia (il documentarista, certo, ma come, dove, perché?), tutto resta vago. Nè Pietro né Bruno si sono sposati, non hanno fatto figli, non hanno lavori fissi, al punto che possono permettersi di costruire insieme una capanna in alta montagna dove vivono a turno per mesi pur senza acqua né elettricità, dove ci si va solo a piedi con ore di cammino e dove nonostante ciò c'è continuamente gente ospite. Mah. Situazioni e circostante davvero strane, mi piacerebbe sapere se c'è davvero gente che lo fa, così come se davvero c'è chi non si trova ingabbiato in situazioni famigliari che rendono impossibile l'eremitaggio in montagna. Però, alla fine, il vero punto debole di "Le otto montagne" è questo: non succede nulla. Non c'è nessuna tensione narrativa. Non ci sono fatti. Non c'è una trama. Non c'è un inghippo. Non si capisce perché debba essere intetessante, al di là della gradevolezza della narrazione, vedere che cosa succede nella pagina dopo. L'unico momento di dramma, peraltro irrisolto (non si sa che cosa sia successo a Bruno, in realtà) è nelle pagine finali. Per il resto, Bruno può permettersi di soffiare la ragazza a Pietro senza che questi batta ciglio. Mi dispiace, per me i romanzi dovrebbero essere romanzeschi. Alle "Otto montagne" preferisco le "Cime tempestose".
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