Valérie Perrin
TATA’
Edizioni e/o
2024, brossura
608 pagine, 21 euro
TATA’
Edizioni e/o
2024, brossura
608 pagine, 21 euro
Non tutte le ciambelle riescono col buco, e questo quarto romanzo della scrittrice francese Valérie Perrin (1967) è probabilmente quello che le è venuto un po’ più stortignaccolo. Il precedente, “Tre”, invece era decisamente bello: ne avevamo parlato in questo stesso blog.
Dicendo che “Tatà” delude le aspettative comunque va da sé che le aspettative erano alte, visto il talento dell’autrice e la sua abilità di costruire intrecci intriganti di pari passo alla caratterizzazione e all’approfondimento psicologico dei personaggi. La Perrin riesce, insomma, a dar vita a trame avvincenti con misteri da chiarire e ingegnosi colpi di scena senza che le si possa attribuire una etichetta di genere, raccontando di personaggi calati nella realtà della vita quotidiana e nei loro legami famigliari e amicali. Un equilibrio delicato che, però, con “Tatà” si è sbilanciato. Il desiderio di costruire un meccanismo in grado di sorprendere il lettore con impreviste rivelazioni che si susseguono la porta a dar vita a una architettura inutilmente complicata e difficile da credere. Lo stesso difetto di Joël Dicker ne “La verità sul caso Harry Quebert”,anche se, dal punto di vista della qualità della scrittura, la francese surclassa lo svizzero.
Eppure l’inizio di “Tatà” è promettente: Agnès, una regista cinematografica di successo che vive il personale dramma di una crisi coniugale, riceve la notizia della morte della zia Colette Septembre. Il fatto è che Colette era già stata dichiarata morta tre anni prima. Agnès si reca nel suo paese natale, a Gueugnon, una cittadina della Borgogna a nord della Francia, per indagare: dopo aver riconosciuto il cadavere della zia, defunta per cause naturali, serve scoprire chi è sepolto, dunque, al posto suo, nella tomba che reca il suo nome e perché la vecchietta abbia deciso di fingersi morta nascondendosi da tutti nei suoi ultimi anni di vita. Le indagini di Agnès ricostruiscono pezzo per pezzo la vita di Tatà Colette e, con la sua, quella dell’intera loro famiglia, dagli anni dell’occupazione nazista della Francia ai giorni nostri, ovvero quelli del romanzo, ambientato nel 2010 nella sua parte principale. Tutto ciò che la regista credeva di sapere sui genitori e i parenti viene rimesso in discussione, e la Perrin esplora la complessità dei legami famigliari, che vanno al di là dei vincoli biologici. Nell’intreccio trovano posto anche le figure di un gruppo di amici d’infanzia che Colette ritrova a Gueugnon, e che la aiutano nella ricerca della verità. L’indagine alterna vari piani temporali saltando di decennio in decennio e tornando indietro, e la narrazione viene affidata a voci diverse, perché attraverso alcune decine di audiocassette la stessa Tatà racconta (ma con una lentezza esasperante) gran parte di ciò che Agnès vuol sapere (se la regista le avesse ascoltate tutte di fila o se la zia, come sembrerebbe più logico, avesse spiegato tutto in una cassetta sola, facendola breve, la faccenda sarebbe stata più credibile. Oppure sarebbe bastata una lettera. Invece, Agnés si fa durare l’ascolto per tutto il romanzo arrivando all’ultima registrazione giusto in fondo al libro. Alla verità, che nella vita reale tutti vorrebbero sapere subito, si giunge in modo frammentato. Ed è poco convincente che la protagonista, di fronte alle cassette audio che potrebbero rivelargli tutto, pensi: “Me la prenderò con calma, voglio scoprire quelle cassette poco a poco, come un regalo. Non le ascolterò in ordine, chiuderò gli occhi e lascerò fare al caso, come quando si legge un libro che non si vuole divorare, ma assaporare. Ho tutto il tempo che voglio”. La sospensione dell’incredulità nel lettore vacilla e viene messa a dura prova.
Le perplessità aumentano quando ci viene presentatala figura di Blanche, che personalmente ho trovato indigesta e poco credibile. Come poco credibile sono i rapporti fra Blanche e suo padre e quelli fra Colette e sua madre, genitori degeneri decisamente sopra le righe. Soprattutto il papà di Blanche è davvero fuori registro, al punto da assomigliare allo Zalachenko padre di Lisbeth Salander nella saga di “Millennium” (lui sì, però, in grado di creare la suspension of disbelief). Il lettore apprende del perché Blanche debba nascondersi da un vecchietto novantenne e resta di stucco riflettendo sul fatto che sarebbe bastato rivolgersi alla polizia per risolvere ogni problema. Ma accadimenti tirati per i capelli si susseguono per tutto il romanzo e riguardano ogni personaggio: tra quelli più incredibili, l’improbabile storia d’amore fra un diciottenne campione di calcio e la già matura Colette, umile calzolaia – ma anche il matrimonio improvviso, interreligioso, tra un amico di Agnès e una ragazza conosciuta poche settimane prima, nel corso delle indagini. I buoni sentimenti e la correttezza politica imperversano, il potere salvifico dell’amicizia è la panacea di ogni male, il racconto è pieno di morali della favola e il guaio è che non si traggono, ci vengono spiegati.
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