domenica 23 novembre 2025

LA GUERRA DI COCHISE



Mauro Boselli
Roberto De Angelis
LA GUERRA DI COCHISE
Sergio Bonelli Editore
2025, cartonato
386 pagine, 29 euro

«Cochise, il saggio capo dei Chiricahuas Apaches, è uno dei migliori amici di Tex, e abbiamo raccontato nel Texone “Il magnifico fuorilegge” come lui e il nostro eroe diventarono fratelli di sangue. Cochise, naturalmente, è veramente esistito, e nella realtà storica lasciò questo mondo terreno nel 1874, ma, con la libertà di narratore e artista, il creatore di Tex, Gianluigi Bonelli, gli allungò la vita per ragioni d’avventura». Così spiega lo sceneggiatore Mauro Boselli nella sua introduzione al volume, l’undicesimo dei cartonati dedicati a Tex Willer. A Tex Willer, appunto, e non a Tex, perché la serie raccoglie in tomi e ripropone in libreria le storie originariamente pubblicate in albi da edicola nella testata omonima, dedicata alle vicende di un giovane Willer, ancora ventenne, inedite ma collegate in gran parte a quanto raccontato da Bonelli e Galleppini ai tempi delle edizioni Audace e inserite in un preciso e documentato contesto storico. La collana libraria con copertina rigida inizia con il volume “Vivo o morto!” (2019), di cui abbiamo parlato su questo blog: potete leggere la recensione cliccando qui.

Riporto comunque qui di seguito, per comodità,  quanto già scritto.
Nel novembre del 2018 fece la sua prima apparizione nelle edicole italiane una nuova collana riservata a Tex, dedicata alle avventure giovanili del personaggio creato da Giovanni Luigi Bonelli nel 1948 (si festeggiavano per l’appunto i settanta anni di vita editoriale di Aquila della Notte), curata (e in gran parte sceneggiata) da Mauro Boselli. Lo spin-off venne intitolato, per differenziarlo dalla testata madre, “Tex Willer”. La foliazione era più agile, sole 64 tavole a fumetti contro le 110 della serie regolare. Ma, soprattutto, oltre alla più giovane età del protagonista era diverso il ritmo, il mood narrativo. Il giovane Tex è scavezzacollo, vive avventure rocambolesche, serrate come erano, anche in ragione del minor spazio concesso dal formato a strisce delle origini, gli episodi degli anni Quaranta e Cinquanta. L’operazione si rivela fortunata, riscontrando l’apprezzamento del pubblico. Nel 2021, la Sergio Bonelli Editore comincia a raccogliere e riproporre in una collana cronologica di volumi cartonati destinati alla distribuzione in libreria le tavole degli albi da edicola, in prima edizione a colori, in bianco e nero nelle successive (il volume del 2023 fotografato nelle mie mani che vedete in apertura è una terza edizione del giugno 2023). Scrive Mauro Boselli nella sua introduzione intitolata “Quando il West era giovane”: “Il Tex che conosciamo ha 45 anni, ed è vedovo, con un figlio grande. I suoi lettori affezionati, però, conservano indelebile, nella memoria e nell’anima, il ricordo del giovane scatenato che era: le due immagini, il fuorilegge coraggioso ingiustamente perseguitato e l’odierno ranger e capo Navajo, si sovrappongono, concorrendo entrambe al fascino del personaggio”. Le avventure del Tex ventenne riempiono gli spazi vuoti lasciati da Giovanni Luigi Bonelli nella sintesi delle sue prime sceneggiature: per esempio, in “Vivo o morto!” scopriamo gli antefatti della vignetta d’esordio del personaggio, quella in cui il giovane ricercato si chiede se i cavalieri che vede giungere sulla sua pista siano gli uomini di un certo sceriffo, e ci vengono fornite esaustive spiegazioni circa i precedenti dell’indianina Tesah (fortunatamente con le cosce scoperte prima della censura imposta nelle ristampe degli anni Cinquanta dal famigerato marchio “Garanzia Morale”). In avventure successive vediamo in azione anche Kit Carson, Mefisto, Montales, Cochise, anch’essi con venticinque anni di meno. Questo primo volume raccoglie quattro albi di “Tex Willer”, illustrati da uno strepitoso Roberto De Angelis, che già si era cimentato con successo con Aquila della Notte nel 2004 con il diciottesimo “Texone” (“Ombre nella notte”, testi di Claudio Nizzi). Tuttavia, in quel caso, era ancora un illustre ospite in prestito dalla serie di Nathan Never. Con “Vivo o morto!” il passaggio al western è (o sembra) definitivo: De Angelis sembra tuttavia non aver fatto altro. 

A quanto detto restano da aggiungere alcune annotazioni relative specificamente a “La guerra di Cochise”. Innanzitutto, si tratta della raccolta in volume degli albi della collana “Tex Willer” (Sergio Bonelli Editore) dal n° 50 al n° 55, usciti in edicola tra il dicembre 2022 e il marzo 2023. Poi, registriamo una fugace apparizione della futura giovane moglie di Tex, Lilyth. Si tratta di una scena di cinque tavole ambientata nella missione di Nostra Signora della Carità: un navajo di nome Hastin è stato inviato dal capo Freccia Rossa a recuperare presso il convento la propria figlia affidata alle cure e alla scuola delle suore. Soffiano venti di guerra e il sakem preferisce proteggere personalmente Lilyth nel suo villaggio sui monti. “Sono stata bene, qui. Ho imparato tanto”, dice la ragazza salutando suor Patricia, la madre superiora del piccolo monastero. Si tratta di una scena che, evidentemente, prepara l’incontro fra Lilyth e Aquila della Notte, destinato ad avvenire nel proseguo della saga, e giustifica la scolarizzazione della squaw in accordo con quanto detto su di lei da Gianluigi Bonelli.
 
I venti di guerra a cui accennavamo sono quelli tra i Chiricahuas e l’esercito americano, dopo che i guerrieri di Cochise erano stati ingiustamente accusati di aver fatto prigioniero il giovanissimo Felix Ward. Si tratta di un episodio realmente accaduto. Racconta ancora Boselli: «Il 27 gennaio 1861, una banda di predoni apache attaccò il ranch di John Ward in Arizona e rapì un ragazzo. Felix era figlio di Maria Jesus Martinez e di un perdigiorno, Santiago Telles, che li aveva abbandonati senza un soldo. John Ward aveva assunto Maria nel ranch e adottato il piccolo Felix, dandogli il proprio cognome. Felix aveva undici o dodici anni quando venne rapito e con certezza non si è mai stabilito a quale tribù appartenessero i suoi rapitori, se ai Pinal, ai Tonto o ai Coyotero Apaches. Di sicuro venivano dal ramo occidentale della Nazione Diné (così Apache e Navajos chiamavano se stessi), al quale non appartenevano i Chiricahuas». Storica è la figura dell’ufficiale dell’esercito George Bascom, incaricato di liberare il ragazzo, che si intestardì nel ritenere Cochise responsabile del rapimento, che Boselli caratterizza in maniera impeccabile come un ottuso ostinato, a cui va addebitato lo scontro sanguinoso fra i Chiricahuas e le Giacche Blu. Il racconto boselliano corre su due binari paralleli destinati, nel finale, a ricongiungersi: mentre da un lato vediamo il capo apache tenere testa a Bascom, dall’altro seguiamo giovane Tex dare la caccia a Santiago Querquer, responsabile della strage di Galeana nella quale aveva perso la vita il padre di Cochise, alter ego di James Kirker, che nella realtà storica morì nel 1852 e quindi Boselli usa lo stratagemma di una falsa tomba e di una finta morte. La sua dipartita, diciamo così, “fumettistica” avviene in modo molto più drammatico di quella reale e per mano di Cochise, a cui Tex Willer lo consegna. In conclusione: il racconto messo in scena da Mauro Boselli e Roberto De Angelis è western ed è fumetto allo stato puro, decisamente il meglio che si possa desiderare, dal punto di vista della sceneggiatura e da quello grafico, a partire dalla copertina di Massimo Carnevale. Leggere per credere.



sabato 22 novembre 2025

CHI (NON) L’HA DETTO


 Stefano Lorenzetto
CHI (NON) L’HA DETTO
Marsilio
2019, brossura
400 pagine, 18 euro

Il sottotitolo, “Dizionario delle citazioni sbagliate”, basta a spiegare di che cosa si tratta: un elenco, certosino e quasi maniacale, di false attribuzioni di frasi e sentenze di cui non si è controllata la fonte, compilato da un giornalista con gli occhi da nittalopo, Stefano Lorenzetto (1956) specializzato in interviste, collaboratore dello Zingarelli e con nel curriculum incarichi di responsabilità in vari quotidiani. La lunga introduzione dell’autore è un saggio (che da solo vale il prezzo del biglietto) sul lavoro di chi scrive per mestiere e per mestiere dovrebbe essere moralmente obbligato a faticare sulla conferma della fondatezza delle informazioni fornite ai lettori. Oltre a non diffondere fake news, giornalisti e articolisti, saggisti e oratori, dovrebbero non citare a vanvera. Lo spicilegio di Lorenzetto nasce da una collezione di errate paternità attribuite a questo o a quello solo per sentito dire, raccolte nel corso degli anni con lodevole pignoleria, analizzate una per una alla ricerca del vero titolare di una massima o di un detto memorabile. Se le citazioni sbagliate abbondano su libri e giornali, addirittura imperversano sui i blog e sui social. 

Lorenzetto procede ordinando per autore i personaggi a cui sono attribuite parole che non hanno mai detto, e che in molti casi neppure si sarebbero sognati di dire. Si comincia con Adorno e con una frase riguardante Auschwitz e i mattatoi che è invece da attribuire a Charles Patterson; si finisce con Thomas Watson, presidente della IBM e la sua previsione “penso che ci sia un mercato mondiale, per, forse, cinque computer” (dichiarazione di cui non c’è traccia nei suoi scritti e discorsi, né negli archivi della multinazionale). Si scopre che Goebbels non disse mai “quando sento la parola cultura metto mano alla pistola” (a pronunciare la frase fu un altro gerarca nazista, Baldur von Schirach, che la rubò al commediografo tedesco Hans Johst); ma anche Gesù Cristo dicendo (o come gli viene fatto dire dagli evangelisti) “prima che il gallo canti” citò Plauto che scrisse “prius quam galli cantent” nel “Miles gloriosus”; del resto nessuna fonte precedente a una biografia del 1789 riporta l’aneddoto secondo il quale Galileo Galilei nel 1633 avrebbe detto “eppur si muove”. Persino De Coubertin non è l’autore dell’aforisma “l’importante non è vincere, ma partecipare”, attribuibile invece al vescovo protestante Ethelbert Talbot. Si resta stupiti del fatto che il generale Cambronne non esclamò mai “Merde!” a Waterloo, mentre è risaputo che Conan Doyle non mise mai in bocca a Sherlock Holmes il tormentone “elementare Watson” e che a Machiavelli non si può attribuire la sentenza secondo la quale “il fine giustifica i mezzi”. Tutto molto divertente. Tuttavia alcune smentite sono opinabili: per esempio, Lorenzetto contesta l’attribuzione a Flaubert della frase “Madame Bovary sono io” solo perché la fonte sembra essere la testimonianza di una donna con la quale era in corrispondenza, e alla quale avrebbe appunto scritto così. Vien fatto di pensare che, tutto sommato, potrebbe essere vero. Un elemento a sfavore dell’autore sono le digressioni personali che talvolta egli si concede, prendendo spunto da una citazione per raccontare fatti propri scollegati con l’oggetto della discussione. Particolarmente sgradevole è il caso della frase “de mortuis nihil nisi bonum” (dei morti non dir nulla se non di buono, ovvero non parlare male dei defunti), attribuita a Kant mentre in realtà è di Diogene Laerzio, citata per sostenere che in realtà ci sono morti di cui è lecito dire peste e corna e dilungarsi sulle colpe parrebbe imperdonabili di uno scomparso, nel frangente Umberto Veronesi (che nulla c’entra con Kant e Diogene Laerzio). Comunque sia, il dizionario di Lorenzetto è gradevole, interessante, curioso e pieno di cultura. Soprattutto invita a non dare per scontato nulla di ciò che si legge, si sente dire e persino si dice.


venerdì 21 novembre 2025

ACQUE MISTERIOSE

 

Guido Nolitta
Franco Donatelli
ACQUE MISTERIOSE
Sergio Bonelli Editore
2025, cartonato
250 pagine, 29 euro

«Il mio amore per il soprannaturale è di vecchia data - spiega Sergio Bonelli, creatore ed editore di Zagor,  in un suo articolo intitolato "Il mare ghiacciato che è dentro di noi" (titolo che cita Kafka) - e risale a quando da bambino andavo al cinema a vedere i film di Frankenstein, dell'Uomo Lupo e di tutti i personaggi che hanno popolato l'universo di celluloide orrorifica degli anni Quaranta e Cinquanta. Ricordo che l'immagine di Boris Karloff sconvolta dal trucco mi terrorizzò per molte notti, così come l'ombra di Bela Lugosi mi sembrava dovesse apparire, all'improvviso, sulla parete della mia stanza. A parte la paura, mi divertivo tantissimo perché, e non sono il solo a dirlo, spavento e divertimento vanno, al cinema o sulla pagina stampata, a braccetto e formano un connubio indissolubile. E con il divertimento nacque, di pari passo con la mia carriera, anche un interesse professionale, quando con il nome-de-plume di Guido Nolitta, cominciai a scrivere sceneggiature, i miei miti cinematografici erano tutti lì, a disposizione, nell' immaginario scaffale della memoria.  Non dovevo far altro che creare un'occasione, un contesto perché prendessero vita anche sulle pagine di un fumetto e Zagor è stata l'occasione per poter dare sfogo a questa mia inclinazione». 
Sergio era un cinefilo a 360 gradi: non apprezzava soltanto i film horror ma ne divorava di tutti i generi, andando con il padre Gianluigi (il creatore di Tex) a vedere quelli western, così come i peplum, gli avventurosi, i gialli o quelli di guerra. Sapeva citare intere filmografie da vero appassionato ed esperto, dunque.  Prima di essere il “giocattolo” dei lettori, Zagor è stato il “giocattolo” di Sergio Bonelli, che saccheggiava il grande magazzino delle letture e dei film che aveva visto, scegliendo quello che, da ragazzo, gli aveva fatto paura e lo aveva lasciato a bocca aperta. Filtrando opportunamente le suggestioni ricevute, cercava di trasmettere gli stessi brividi a chi leggeva i suoi fumetti. “Acque misteriose”, avventura pubblicata per la prima volta nel 1974, nasce dal film “Il mostro della laguna nera” (1954). Ma si possono ricordare le evidenti fonti cinematografiche  di molte altre avventure zagoriane. Per esempio, la pellicola “Pericolosa partita” (1932) è alla base de “I cacciatori di uomini”. Potremmo continuare citando “L’uomo Lupo” (ispirato al film con Lon Chaney del 1941), o il personaggio di “Guitar” Jim che trae origine dal cowboy canterino interpretato da  Sterling Hayden nel 1954 in “Johnny Guitar” (1954), arrivando a “Il giorno della vendetta” (1958) su cui si basa il racconto “La rabbia degli Osages”. 
Sergio era abilissimo nel rielaborare le suggestioni cinematografiche rimescolando le carte e contaminandole fra loro fino a realizzare un prodotto del tutto originale, di cui è evidente l’ispirazione ma che non è sovrapponibile al modello di partenza. Fin dall’inizio della saga Nolitta si è divertito spesso a giocare con il suo pubblico non nascondendo i riferimenti ma anzi a “citandoli”, rendendoli palesi: il lettore coglie la strizzata d’occhio dello sceneggiatore che gli propone il rimando a un film famoso, ma subito dopo si lascia rapire dal suo talento di affabulatore che riusciva a rimescolare le carte e rendere perfettamente zagoriana una vicenda che al cinema aveva tutt’altro contesto e svolgimento. I film fanno parte del bagaglio di conoscenza di tutti noi: gli sceneggiatori di fumetti attingono dagli spunti offerti dalle pellicole come da un viaggio fatto, da un programma televisivo visto, da un libro letto. Le personali sensibilità, poi, servono a rielaborare il messaggio ricevuto, trasformandolo e rendendolo personale. C’è chi cerca di farlo quasi nascondendo la fonte originaria, ma tutti hanno altri autori usati come punto di riferimento; oppure c’è chi non esita a dichiarare da quale spunto sia partito, e dimostra il suo talento giocando a scombinarne gli elementi e a ricomporli in modo fa far risultare una figura diversa. E’ il caso appunto di molte storie di Zagor. 
In “Acque misteriose” Zagor accompagna di naturalisti Kruger e Meyer, sue vecchie conoscenze, in una regione inesplorata del Missouri dove, fra le acque di una malsana palude, vivono creature che non si trovano altrove: “Man mano che avanziamo verso Nord, le mutazioni si fanno più evidenti”, dice a un certo punto uno dei due professori. E un altro loro collega, Weiser, aggiunge: “Stiamo avvicinandoci alla zona più interessante, quella cioè dove qualche elemento ancora sconosciuto favorisce l’alterazione della specie animale”. Infatti, la spedizione si imbatte in api con la coda da scorpione, lucertole con le corna e pesci con le zampe. Weiser è talmente invasato dal suo desiderio di conoscenza da non riuscire a porvi dei limiti. Lo vediamo più volte insistere per proseguire le ricerche e avvicinarsi, nonostante i pericoli, sempre più all’epicentro delle mutazioni genetiche che trasformano, per motivi misteriosi, la fauna di una inesplorata zona del Missouri. A differenza dei suoi colleghi decisamente meno atletici, lui è anche in grado di performance fisiche non indifferenti: “sono stato un autentico campione in molte discipline sportive, all’università di Stoccarda”, afferma a un certo punto della storia. Questa vigoria gli consente anche, a un certo punto, di fare a meno della scorta di Zagor e separarsi dal resto del gruppo, per continuare da solo le sue indagini in cerca di quella fama e  di quella gloria  che non intende condividere con nessuno. Il che, non gli porterà fortuna.
Dicevamo che Kruger e Meyer sono vecchie conoscenze. La loro prima apparizione fu sceneggiata da Guido Nolitta nel 1963 per l’edizione francese di Zagor (salvo poi venire pubblicata anche in Italia e inserita nella serie italiana). I due sembrano un’affiatata coppia da film comico: se il professor Kruger, naturalista darwiniano ante litteram, ha l’aspetto e gli atteggiamenti del classico scienziato un po’ svampito, non meno svitato sembra il suo assistente Mayer che, pure, svolgendo mansioni di portaborse e guardia del corpo, dovrebbe essere un pochino di più con i piedi per terra e invece sembra condividere le stramberie del suo capo. Quando li rivediamo, appunto nell’avventura “Acque Misteriose”, sono sempre molto simpatici, ma meno macchiette. Nel 2013 c’è stato un loro ulteriore ritorno.
L’autore delle tavole a fumetti che compongono questo volume è Franco Donatelli. Un nome, il suo, che si è affiancato a quello del creatore grafico di Zagor per quasi trent’anni: la sua prima storia è datata 1967 e la morte ha sorpreso l’illustratore nel 1995. La “sua” foresta di Darkwood era diversa da quella di Ferri, che l'aveva creata. Acquitrinosa, piena di liane e di vegetazione intricata quella del disegnatore ligure, più asciutta e rocciosa, e con meno alberi, pronta a trasformarsi in montagna e deserto quella di Donatelli. Allo stesso modo, diversa era la sua interpretazione di Zagor, e a ben pensarci singolarmente diversa. Sì, perché mentre il problema di tutti i disegnatori che si sono cimentati e con l'atletica e dinamica figura dello Spirito con la Scure è che hanno dovuto fare i conti con il tratto impressionista ferriano, fatto di pennellate rapidi ed efficaci, cercando di adeguarsi a quella impostazione, Donatelli ha trovato invece fin da subito una sua strada personale, caratterizzando alla sua maniera Zagor, Cico e gli altri comprimari della serie, e benché la sua mano fosse sempre e comunque riconoscibilissima, non ha mai tradito lo spirito di personaggi creati da altri. Sapeva mettersi al servizio degli eroi e delle storie forse proprio perché era stato il primo, in assoluto, a mettersi al servizio della appena nata casa editrice "Audace" allorché Gianluigi e Tea Bonelli, nel 1940, l' avevano rilevata. Giovanissimo (era nato ad Alessandria nel 1925), era stato chiamato a fare da factotum in redazione. Il particolare segno di Donatelli ha reso graficamente alcune delle più belle storie di Zagor. Chi non ricorda, per esempio, storie memorabili come "Mohican Jack", "Libertà o morte", "Spedizione punitiva" e, appunto, "Acque misteriose"?  «Franco Donatelli, secondo me, era un artigiano - ha scritto di lui Graziano Frediani - nel senso più nobile e più antico del termine. Disegnava da sempre, con modestia e dedizione, mantenendo un ritmo produttivo costante e senza mai tradire uno standard qualitativo decisamente elevato».  Proprio Frediani firma, con Maurizio Colombo, l’illustratissima introduzione.





giovedì 20 novembre 2025

IL CAVALLANTE DELLA “PROVIDENCE”



Georges Simenon
IL CAVALLANTE DELLA “PROVIDENCE”
Adelphi
Brossura, 140 pagine
11 euro

Cominciamo dal titolo. Quello originale è Le Charretier de la Providence, pubblicato in Italia come Il carrettiere della “Providence”, tradotto alla lettera. Poi, in altre edizioni si sono preferite scelte diverse:  Maigret si commuove e Il cavallante della "Providence". Sicuramente quest’ultimo è il più corretto, perché il personaggio a cui si fa riferimento,  l’enigmatico e taciturno Jean Liberge, non guida un carretto (e dunque non è un carrettiere) ma conduce a piedi, tenendone le briglie, i cavalli adibiti al traino delle chiatte mercantili lungo gli argini, che siano il bordo dei canali o le sponde dei fiumi. Dunque, è un cavallante. Chiarito il mistero, passiamo a elencare elementi che caratterizzano il romanzo, datato 1931. Innanzitutto, si tratta del secondo poliziesco di Georges Simenon in cui compare il commissario Maigret, ma il primo a venire pubblicato. L’inchiesta con cui inizia la saga del burbero poliziotto parigino, quella intitolata  Pietr il Lettone, era stata scritta nello stesso anno ma, per imponderabili motivi di programmazione editoriale, uscì come terza. Il tutto è spiegato nella recensione che potete leggere cliccando qui.Il commissario non ha, dunque, assunto ancora la sua caratterizzazione definitiva (non agisce neppure a Parigi, ma in trasferta), anche se lo si riconosce benissimo. Un successivo utile spunto di riflessione consiste nel fatto che risulta chiaro quale sia il “metodo Maigret”, così diverso dalle logiche deduzioni di Sherlock Holmes. Un metodo che paradossalmente consiste proprio nell'assenza di un metodo. Il poliziotto cerca di cogliere le sensazioni che gli vengono suggerite dall'ambiente e dalle persone che lo abitano, fino a quando non intuisce una pista. Annusa l’aria, legge negli occhi degli interlocutori, si immedesima in loro e nel loro microcosmo.
Microcosmo che, in questo caso, è rappresentato dal mondo dei battellieri che navigano sui canali che collegano tra loro la Senna, la Marna e la Saona e permettono di attraversare tutta la Francia, dalla Manica al Mediterraneo, lungo un itinerario costellato da chiuse e da stazioni di sosta. Simenon riesce a descriverne perfettamente gli ambienti e i rituali perché, tra la fine degli anni Venti e l'inizio degli anni Trenta, navigò insieme alla prima moglie sul suo battello da diporto di nome "Ostrogoth", a bordo del quale, appunto, scrisse Il cavallante della Providence. Oltre agli ambienti, come al solito è magistrale in Simenon la raffigurazione dei personaggi e l’analisi delle loro psicologie: sir Walter Lampson, un colonnello inglese in pensione, che identifica come sua moglie Mary una donna strangolata in una stalla nei pressi di una chiusa, i suoi compagni di viaggio alloggiati con lui a bordo di uno yacht (Willy Marco, il suo uomo di fiducia, Gloria Negretti, la sua amante, e il russo Vladimir, marinaio e timoniere), e il variegato universo degli osti, degli addetti alle chiuse, dei battellieri e, appunto, dei cavallanti. Maigret, taciturno come al solito, scopre che due dei personaggi non si chiamano, in realtà, come dicono: i loro veri nomi nascondono un passato turbolento e spiegano quel che accade nel presente.

 

domenica 9 novembre 2025

DIABOLIK… SEMPRE PIU’ SOTTOSOPRA


 
 

 
Silvia Ziche
DIABOLIK… SEMPRE PIU’ SOTTOSOPRA
Feltrinelli
2025, brossurato
140 pagine, 20 euro

Spiegherò, più avanti, perché non ritengo “Diabolik… sempre più sottosopra” una parodia del Re del Terrore (una, cioè, delle tante) ma qualcosa di diverso e di più interessante. Tuttavia, prima di arrivare a questa conclusione (appena anticipata), bisognerà intenderci su che cosa sia una parodia e tracciare un breve excursus sulle principali “prese in giro” del criminale in calzamaglia, cominciando da una citazione di un autore di parodie illustri, quali “Nonita” (che mette alla berlina “Lolita”), vale a dire Umberto Eco, il quale si disse preoccupato quando si trattò di ristampare appunto il suo divertissement su Nabokov, contenuto in “Diario Minimo”, negli Oscar Mondadori. "Entrando il libro in una collana popolare di vasta diffusione - scriveva - potrebbe cadere nelle mani di chi non è capace di riconoscere a prima vista i modelli a cui le parodie si ispirano". Nel caso delle parodie di Diabolik, il problema non sussiste. Tale è la popolarità del personaggio delle sorelle Giussani, che basta far vedere un tale mascherato con addosso una tuta aderente nera, per far capire immediatamente quale sia il punto di riferimento. E poiché l'umorismo scatena tanta più ilarità quanto più è immediato, ecco spiegato il motivo per cui le parodie di Diabolik sono state tanto numerose nel corso degli anni. Sia ben chiaro: il fatto che in molti abbiano scherzato sul Re del Terrore non significa affatto che il character sia risibile. Significa solo che è estremamente popolare. Eco spiegava infatti: "Non sempre una parodia si esercita su un modello che considera negativo; sovente parodiare un testo significa anche rendergli omaggio". Questo è dunque lo spirito nel quale vanno intese le buffe controfigure di Diabolik inventate a ripetizione dagli Anni Sessanta a oggi, opera peraltro anche di autori di grandissimo livello.
Alla base di tutto c'era, ovviamente, il boom del fumetto nero iniziato con il Diabolik delle sorelle Giussani, proseguito dal Kriminal e dalla Satanik di Magnus & Bunker e ingigantito dalla proliferazione di testate come Sadik, Zakimort, Demoniak e chi più ne ha più ne metta: una vera e propria inflazione di "kappa" infilati da tutte le parti. Come tutti i fenomeni di costume, anche questo si prestò a far da bersaglio a una nutrita serie di parodie: così, proprio mentre sugli schermi cinematografici giungeva la trasposizione in celluloide di Diabolik per la regia di Mario Bava, al serio si contrapponeva il faceto e veniva immediatamente proposta un'altra pellicola, "Arriva Dorellik" in cui Johnny Dorelli scimmiottava in calzamaglia nera il criminale (e il film non faceva che seguire il successo di una serie di sketch televisivi scritti per Dorelli da Amurri e Jurgens in uno show del sabato sera). 
Anche nei fumetti i cattivi con la "kappa" cominciarono ben presto a essere oggetto di rifacimenti ilari e dissacranti: nelle avventure di Soldino il Reame di Bancarotta iniziò a essere teatro delle criminali imprese di Malvagik e Crudelia (chiaramente ispirati a Diabolik ed Eva Kant). In questo contesto si va dunque a inserire il diabolico Cattivik, che Bonvi non intendeva però solo come una parodia degli eroi neri allora in voga. "Volevo fare un personaggio per bambini che fosse 'cattivo' in maniera dichiarata - ha spiegato l'autore in una intervista - all'epoca il personaggio più 'cattivo' era il Lupo Pugaciov, il che è tutto dire". Nel 1968, “Tilt”, pubblicò l'avventura "Dentiera di sangue", con protagonista un certo Diabetik. Autori dei testi erano Alfredo Castelli (sempre lui) e Mario Gomboli, i disegni portavano la firma di Carlo Peroni. Nel 1969, perfino i Disney italiani presero spunto dal Re del Terrore per creare il personaggio di Paperinik, alter ego di Paperino. La prima storia, "Il diabolico vendicatore", scritta da Guido Martina e disegnata da Giovan Battista Carpi, comparve divisa in due puntate sui numeri 706 e 707 di Topolino. I riferimenti a Diabolik sono molteplici, e non solo limitati alla "kappa" finale nel nome: basti pensare che, rincorso dalla polizia, Paperinik usa alcuni trucchi  nascosti nella sua auto per seminare gli inseguitori. Sembra che alla base del personaggio ci sia stata un'idea di Elisa Penna, redattrice della testata. Martina costruì una storia divertente e intrigante in cui in una villa diroccata, Paperino scova il diario di Fantomius, ladro gentiluomo, e pensa di  imitarne le gesta. Del resto, il nome di "Fantomius" fa immediatamente pensare a Fantomas, ergo allo stesso Diabolik . In un paio di occasioni, negli anni Novanta Cattivik si è scontrato con un personaggio chiamato Diavolik, vale a dire con una puntuale parodia (disegnata con efficacia da Giorgio Sommacal) del suo stesso ispiratore. Autore dei testi delle due storie in questione, il sottoscritto. Ricordo che presentando a Silver la proposta del primo soggetto, mi sentii raccomandare: "Diabolik è l'ispiratore di Cattivik, e dobbiamo rendergli omaggio come si deve: bisogna che venga fuori una signora storia!". Sul risultato, come parte in causa, non mi pronuncio. Ma sul fatto che si trattasse di un omaggio frutto di un grande amore verso il Re del Terrore, non ci sono dubbi.  
Facciamola breve e arriviamo al 2013 quando, rifacendosi alla grafica e alle dimensioni del tradizionale tascabile di Diabolik, nel 2013 Leo Ortolani e la Panini proposero il Re dell’Errore, “Ratolik”, un esilarante “falso” del Re del Terrore intitolato “Trappola d’amore” in cui si gioca sull’equivoco rapporto fra Ratolik e la sua compagna Ada, abbreviazione di Adamo.  E nel 2019 la stessa Astorina distribuì in edicola “L’uomo che non sapeva ridere”, avventura dai toni ilari scritta da Tito Faraci e illustrata da Silvia Ziche, poi riproposta in libreria nel 2021 da Feltrinelli con il titolo “Diabolik sottosopra”. L’esperimento ebbe un successo tale da venire ripetuto: nel 2024 ecco arrivare nei chioschi  “Un posto tranquillo”, opera della stessa coppia di autori (peraltro rodata) che un anno dopo giunge in distribuzione libraria come “Diabolik… sempre più sottosopra”, vale a dire il volume a colori che vedete nella foto in apertura. Lo spunto è molto divertente: Diabolik e Ginko, decisi entrambi a prendersi una vacanza per liberarsi dalla reciproca ossessione, si ritrovano, all’insaputa l’uno dell’altro, nello stesso paesino di campagna isolato dal resto del mondo, dove peraltro vengono coinvolti in un caso decisamente misterioso. Vengo al dunque, riallacciandomi a quanto anticipato in apertura, e spiego perché non si tratta, sia nel caso del primo che del secondo racconto “sottosopra”, di vere e proprie parodie. 
Il punto è che Diabolik, Eva Kant e Ginko non sono controfigure di loro stessi. Il personaggio in calzamaglia non si chiama Diabetik, Dorellik, Malvagik, Cattivik, Paperinik, Diavolik o Ratolik, ma conserva il suo nome reale. I protagonisti delle due storie vengono presentati come i reali (nella realtà della finzione) Diabolik, Eva Kant e Ginko. Solo che vengono fatte vivere loro avventure divertenti, con mood da commedia, che però non contraddicono le caratteristiche di base dei character. Neppure i toni sopra le righe o sottosopra delle trame si scontrano del tutto con il livello di sospensione di incredibilità richiesto al lettore: credere che il Re del Terrore sia capace di mettere a segno i suoi crimini nei modi proposti dalle sorelle Giussani non è poi troppo più facile che credere alla vacanza di Diabolik e di Ginko nello stesso “posto tranquillo”. In più, la bravissima Silvia Ziche, dimostrando (o confermando) la sua versatilità, utilizza uno stile tutto sommato realistico, o perlomeno non da cartoon. Non fa la caricatura dei protagonisti ma cerca, a mio parere riuscendoci, di raffigurarli quanto più possibile in modo accostabile ai disegni della tradizione, pur staccandosene quanto basta a divertire i lettori. Oltre a “Un posto tranquillo” (120 tavole colorate da Manuela Nerolini, il cui cognome è divertente per una colorista quanto il mio per uno sceneggiatore umoristico) il volume Feltrinelli propone anche due altre storie brevi: “Sense off humor” (8 tavole scritte da Mario Gomboli) e “Non agitare prima dell’uso” (8 tavole scritte da Tito Faraci).



giovedì 6 novembre 2025

UFO 78

 



Wu Ming
UFO 78
Einaudi
2022, brossurato
520 pagine, 21 euro

La prima volta che mi imbattei nei Wu Ming si firmavano ancora Luther Blissett, era il 1999 e si trattava di un romanzo storico ambientato nel Cinquecento (il più affascinane dei secoli dell’epoca moderna) e intitolato enigmaticamente “Q”. Lo pseudonimo celava (senza nasconderlo) un gruppo di scrittori bolognesi, che nel corso degli anni hanno variato di numero, tra i cinque e i tre. Dal 2000 il collettivo ha cominciato a chiamarsi Wu Ming, che in cinese significa “senza nome”, anche se in realtà visitando il loro sito, o partecipando agli eventi promossi dal team, si risale facilmente all’identità dei tre (o dei quattro, o dei cinque). Leggere “UFO 78”, per me che sono nato nel 1962, è stato come fare un viaggio nel tempo fino alla mia adolescenza. C’è davvero l’intera realtà che avevo attorno negli anni del Liceo: il rapimento di Aldo Moro, il terrorismo di destra e di sinistra, la lotta per il diritto all’aborto, l’affrancamento femminile e la liberazione sessuale, la politica impregnante tutti gli aspetti della società, la droga e le prime comunità di recupero, le comuni, le avanguardie musicali, Sciascia e Pasolini. Il tutto narrato come visto e vissuto dall’interno di quel mondo agitato di cui facevamo parte inconsapevolmente, senza renderci conto che i nostri giorni sarebbero diventati Storia e che li avremmo rimpianti. Ma nel cielo sopra di noi, metafora perfetta di un sogno, una speranza, una paura, un pullulare di astronavi aliene, avvistate dovunque, soprattutto dopo “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, il film di Steven Spielberg uscito nel 1977. Nel 1978 ci fu un “flap”, ovvero un picco di segnalazioni in ogni parte d’Italia, suscitando l’ imperversare di gruppi di ufologi, taluni di impostazione politica, altri mistica, altri scettica. Protagonista del romanzo dei Wu Ming è Gianmaria Zanchini, in arte Martin Zanka, scrittore di successo e autore di libri di paleoastronautica, la pseudoscienza che cerca di dimostrare contatti fra gli extraterrestri e l’umanità dei primordi: una chiara controfigura di Pier Domenico Colosimo, alias Peter Kolosimo (1922-1984), che infatti è il primo nome nel lungo elenco delle persone ringraziate (“perché senza di lui questo romanzo non sarebbe stato immaginato”).  La narrazione prende infatti le mosse dalla misteriosa scomparsa di Jacopo e Margherita, una coppia di due giovani scout, avvenuta nel 1976 sul monte Quarzerone, un massiccio di fantasia ma collocato idealmente in Lunigiana. Le ricerche durano settimane, mesi, ma sono senza frutto. Dato che sulla montagna si sentono speso boati, si avvistano luci, c’è addirittura chi dice di essere entrato in contatto diretto con gli extraterrestri, gli ufologi ipotizzano una “abduction” aliena. Zanka si convince di dover indagare per contribuire alla ricerca della verità, e intende dedicare il suo nuovo libro al caso degli scout svaniti nel nulla. Le sue indagini si intrecciano con le vicende di suo figlio Vincenzo, eroinomane; di Milena Cravero, antropologa incuriosita dalle dinamiche interne ai gruppi di ufologi; del forestale Elio Giornara, detto Gheppi; di Jimmy, gestore di un negozio di dischi; di Orsola, fondatrice della comune “Thanur”; di Giorgio Capoferri, nostalgico fascista. Un microcosmo di personaggi che danno vita a una storia avvincente, ben documentata, piena di citazioni che vanno dallo Zecchino d’Oro ai volantini delle Brigate Rosse.


mercoledì 5 novembre 2025

LUCIFERA



 
Averardo Ciriello
LUCIFERA
a cura di Giuseppe Mura
AG Press
2009, cartonato
230 pagine, 79 euro

Prima di parlare dello straordinario libro di cui vi mostro qua sopra la copertina, lasciatemi ricordare il mio primo e unico incontro con il maestro Averardo Ciriello (1918-2016), avvenuto a pochi mesi dalla sua scomparsa (avvenuta alla veneranda età di novantotto anni). Ci trovavamo sullo stesso palcoscenico per ricevere lo stesso riconoscimento, il Romics d’Oro 2016, io per la mia attività di sceneggiatore, lui quale Premio alla Carriera. Ciriello venne accompagnato sul palco su una carrozzella e ricevette il trofeo dorato dalle mani del ministro Franceschini. Qui di seguito trovate il link al video della cerimonia, dove mi si intravede in giacca grigia, ma soprattutto si vede lui, il maestro, molto emozionato, ed ero emozionato anch’io nell’assistere alla scena, essendo di Ciriello un grande ammiratore.

Impossibile, del resto, non ammirare le sue illustrazioni. Del resto, è stato considerato l’erede di Boccasile, maturando però un tratto personale ben evidenziato dai suoi lavori per riviste quali “Le Nuove Grandi Firme” e “Sette”, con cui collaborò a partire dall’immediato Dopoguerra, forte comunque di una esperienza iniziata nella seconda metà degli anni Trenta. Nel 1948 cominciò a realizzare cartelloni cinematografici per la Lux Film, attività che portò avanti per trentacinque anni affermandosi come uno dei più grandi cartellonisti di casa nostra. Nel 1966 sostituisce Walter Molino sulla “Domenica del Corriere”, tra il 1970 e il 1980 non si contano le sue illustrazioni per libri per ragazzi. Ma Ciriello lavora anche per gli adulti, realizzando centinaia di cover per la Casa editrice Ediperiodici, rimanendo legato soprattutto a due personaggi cult del fumetto erotico italiano, Lucifera e Maghella. Fumetto erotico italiano, del resto, caratterizzato dall’apporto di altri grandi copertinisti, quali Emanuele Taglietti e Alessandro Biffignandi, con il quale forma un vero e proprio tris d’assi (volendo fare poker, potremmo aggiungerci Carlo Jacono).
Proprio all’attività di copertinista di Lucifera è dedicato il volume di grande formato curato da Giuseppe Mura, che presenta tutte, ma proprio tutte, le cover della serie (170 albi, usciti tra l’ottobre 1971 e l’agosto del 1980). Per essere precisi, i primi 46 numeri propongono in copertina illustrazioni realizzate da artisti dello Studio Rosi, ma dal quarantasettesimo episodio in poi ecco arrivare, in tutto il loro splendore, le copertine di Averardo Ciriello. Rivederle riprodotte a tutta pagina, senza logo né titolo, è una gioia per gli occhi. Alcune cover, che vennero censurate, sono riprodotte incensurate e risultano pertanto inedite. Il fatto che Ciriello sia un maestro nel disegnare figure femminili e che presti la sua arte a un personaggio “satanico”, erotico, conturbante e disturbante non fa che accrescere l’ammirazione del puro con gli occhi puri (“omnia munda mundis”) al pari dello spettatore più malizioso e birichino, dato che chi disegna lo fa per suscitare emozioni in chi fruisce della sua arte, e indubbiamente l’erotismo è un’emozione potente.
Oltre alle illustrazioni, il volume contiene un breve apparato critico che inquadra il personaggio di Lucifera nel contesto della produzione a fumetti per adulti degli anni Sessanta e Settanta. La protagonista è un “demonio fatto donna, una figlia dell’inferno mandata da Satana sulla Terra nel bel mezzo dell’oscuro Medioevo a seminare il male”, spiega Giuseppe Mura. Tra i tabù infranti, a dispetto della società ancora in larga misura omofoba, quello dell’omosessualità (Carlo Magno se la fa con il paladino Orlando). I toni sono satirici e fiabeschi, per quanto si calchi la mano sul truce e il truculento, sul demoniaco e sull’orrorifico. Lucifera è stata creata, quando ancora Renzo Barbieri e Giorgio Cavedon erano ancora soci in affari sotto il marchio ErreGi (si sarebbero divisi nel 1972, dando vita a due Case editrici concorrenti, la Edifumetto e la Ediperiodici), dallo sceneggiatore Rubino Ventura (alias Giuseppe Pederiali) e dal disegnatore Leone Frollo
Va sottolineato come alcuni personaggi dei sexy pocket furono protagonisti di vere e proprie saghe dalla lunghezza sterminata, autentiche telenovelas di cento, duecento, trecento puntate: Lucifera, Jacula, Goldrake, Vartan, Isabella e altri ancora erano seguiti da un pubblico fedelissimo e appassionato. Accanto all'eros, troviamo spesso anche il thanatos: morte, violenza, demoni infernali, quasi a voler evidenziare la filiazione diretta del fumetto erotico da quello nero. Queste pubblicazioni consentirono ad artisti provenienti da anonime produzioni popolari di affermarsi come grandi autori: è il caso di Milo Manara, Leone Frollo, Magnus, Fernando Tacconi e molti altri.


martedì 28 ottobre 2025

CATTIVA FEDE

 


Ken Follett
CATTIVA FEDE
Edizioni Dehoniane
2017, brossurato
80 pagine, 7.50 euro

Non c’è bisogno di ricordare chi è il britannico Ken Follet (Cardiff, 1949), autore di best seller di fama internazionale. Però, suvvia, citiamo almeno “I pilastri della Terra”, il suo romanzo di maggior successo. C’è però bisogno di spiegare che cos’è questo libretto di poche decine di pagine, così poche rispetto alla mole dei volumi del resto della sua produzione. Il titolo della collana, “Lampi d’autore”, viene spiegato proprio dalla fulmineità dei testi presentati. Si tratta di un memoir pubblicato nell’autunno del 2016 sulla rivista inglese Granta, in un numero speciale di argomento religioso dedicato alla frammentazione settaria delle varie chiese protestanti. Ken Follett rievoca, non senza dolore, la sua infanzia trascorsa nella gabbia delle convinzioni della Plymouth Brethren, una fratellanza puritana per la quale il peccato poteva annidarsi letteralmente ovunque, confraternita di cui la famiglia dello scrittore faceva parte. Tutto nasce dall’istituzione della Chiesa anglicana da parte di Enrico VIII, nel 1534. Da questo scisma scaturirono decine di gruppi religiosi detti “non conformisti” in quanto, pur accettando la separazione dalla Chiesa cattolica, non si conformavano all’Atto di uniformità con cui nel 1662 si cercò di radunare il gregge disperso. Si creò una divisione tra “Chiesa alta” e “Chiesa bassa”, quest’ultima formata appunto dai dissidenti, frammentati fra loro in modo inverosimile. Presbiteriani, battisti, metodisti e calvinisti sono quelli più conosciuti. Tra le congregazioni più piccole c’è appunto la Plymouth Brethren, nata ai primi dell’Ottocento ma collegata alla tradizione dei Padri Pellegrini partiti per l’America a bordo della nave Mayflower nel 1620. A pochi anni dalla fondazione, già nel 1848 il gruppo si spacca in due: gli Open e gli Exclusive. Più aperti all’accoglienza i primi, rigidamente chiusi i secondi. Follett scrive di non essere a conoscenza di nessuna differenza fra i due rami a parte l’atteggiamento nell’ammettere chiunque alle proprie cerimonie o non ammettere nessuno che non facesse parte della comunità. La famiglia di Ken faceva parte degli Exclusive, per i quali una delle più temibili trasgressioni, fonte di perdizione, era entrare in una cappella degli Open. Guai poi soltanto a parlare con qualcuno dei rivali. La competizione fra le varie congregazioni anglicane è sempre stata feroce. Uno dei pezzi forti di “Cattiva fede” è il racconto che Follett fa di una barzelletta riguardante un gallese che dopo aver fatto naufragio su un’isola deserta costruisce due cappelle. Quando arrivano a salvarlo, gli chiedono a che serve la seconda e lui risponde: “E’ quella dove non vado”.  
Nessun dubbio che la Plymouth Brethren si possa definire una setta. Al piccolo Ken viene vietato l'andare al cinema, così come era esclusa ogni forma di divertimento, compreso l’ascolto della musica o la frequentazione di eventi sportivi. Nessuna possibilità di mettere in discussione l’autorità dei genitori e, in generale, quella degli anziani. Assillanti le letture della Bibbia e le funzioni religiose (tre durante la domenica), divieto di partecipare alla vita pubblica iscrivendosi a un partito o a un sindacato. Follett rimpiange soprattutto di non aver potuto diventare un boy scout. Non si poteva mangiare in compagnia di nessuno che non facesse parte del gruppo, né andare ai funerali di estranei. Insomma, il fanatismo più totale. Frequentando l’Università, dopo aver scelto filosofia nella speranza che gli studi potessero aiutarlo a superare i suoi dubbi sull’esistenza di Dio (“nessun dato di fede superò la prova dei criteri logici”), Follett diventa ateo, “un ateo arrabbiato”, perché non aveva potuto entrare nei boy scout”. Conclude lo scrittore: “Mi sono bastati tre anni per diventare ateo, ma ho speso il resto della vita per ritrovare una qualche forma di spiritualità”.  Dopo il testo tradotto da Alessandro Zaccuri (autore anche della prefazione), viene proposto il godibilissimo testo originale in inglese. 



lunedì 27 ottobre 2025

ZONA PROIBITA

 

 

Francis Bergese
Le avventure di Buck Danny
ZONA PROIBITA
fumetto - Alessandro Editore
Prima edizione 1998
cartonato - 50 pagine 

La cosa più interessante di questo albo è la quarta di copertina. Lì, finalmente, comprare la cronologia francese di Buck Danny confrontata con quella italiana e si può avere il quadro della situazione nel 1998. Che era la seguente: in Francia, Buck Danny ha avuto quattro team creativi, pubblicati in Italia da due diversi editori, la Cenisio e Alessandro. I team, fino alla collana di Alessandro Editore, erano stati: Hubinon & Charlier per i primi quaranta albi (la serie è stata creata da loro due con Georges Troisfontaines),  Bergese & Charlier dal 41 al 44, Bergese & De Douhet per il 45 e il solo Bergese per il 46 e il 47. “Zone Interdite” è appunto il quarantasettesimo. Attualmente i volumi sono arrivati a quota cinquantasette (e gli autori nel frattempo sono ancora cambiati). Jean-Michel Charlier, già creatore con Giraud di Blueberry, è stato il più prolifico sceneggiatore della collana, fin dalla prima avventura “Les Japs attaquent”, del 1948, pubblicata su “Spirou”. Dopo la sua scomparsa, il disegnatore Bergese, subentrato già nel 1979 dopo la precedente morte di Victor Hubinon, si scrive i testi da solo. In Italia, la Cenisio ha pubblicato i primi quaranta albi, quelli appunto di Hubinon, in ordine sparso e lasciandone ben dieci inediti. Alessandro Pastore ha rilevato i diritti del personaggio dalla gestione grafica di Bergese. In tempi più recenti la Panini ha dato alle stampe i volumi cartonati della collana "Buck Danny L'integrale", poi passati all'Editoriale Cosmo.
Buck Danny è un pilota di caccia dell’aviazione statunitense, eroe di guerra del Pacifico (le prime storie, con i giapponesi, le Tigri Volanti e le Midway son appunto “d’epoca”). A rigor di logica oggi dovrebbe essere in pensione, ma invece è sempre giovane e pimpante e continua a guidare i più sofisticati aerei in dotazione alle portaerei americane, peraltro in compagnia di un altro ben conservato personaggio, Sonny Tuckson, un piccoletto dai capelli rossi e dalla battuta facile, chiaramente ispirato a Mickey Rooney. La storia di “Zone Interdite” vede i nostri piloti inviati in missione uno stato centroamericano chiamato Managua, il cui governo è ritenuto amico degli USA. Le autorità, in cambio di aiuti economici e militari, si sono impegnati a combattere il traffico di droga che parte appunto dalle foreste del paese; però la droga managuense aumenta e sembra che esista un aeroporto ben attrezzato, con tanto di Mig pronti al decollo, al servizio dei trafficanti. Il governo nega che l’installazione faccia parte dei presidi dei loro militari, si tratta di controllare se stia mentendo o se i baroni della droga hanno un aeroporto privato; però non si possono mettere a rischio i rapporti fra i due Paesi. Per cui,  approfittando di un corso di istruzione che Buck e Sonny sono chiamati a fornire ai piloti locali, i nostri dovranno trovare il modo di sorvolare la zona dell’aeroporto. La zona però è proibita al volo perché, spiegano i managuensi, è in mano alla guerriglia. Buck Danny sorvola l’aeroporto con un piccolo aereo da turismo, e scopre che una organizzazione di trafficanti sta cercando di controllare i governi di tutti i piccoli stati dove si produce la droga e ha infiltrati ai vertici di parecchi Paesi, tra cui il Managua. L’avventura si interrompe e rimanda a un seguito, intitolato “Tuoni sulla Cordigliera”. I disegni di Bergese sono chiari, puliti, in linea perfetta con la tradizione, le scene in cui si vedono gli aerei sono le più curate. Certo, negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta i ragazzini dovevano galvanizzarsi vedendo le scene con i velivoli militari in azione, oggi che i simulatori di volo sono in ogni computer il fascino è minore. Un po’ troppo tradizionali (senza violenza, senza sangue, senza sesso, senza pathos) le tavole scandite sulla rigida gabbia delle quattro strisce alla francese.


domenica 26 ottobre 2025

L'ASSASSINO


Georges Simenon
L’ASSASSINO
Adelphi
2011, brossurato
160 pagine, 16 euro

Ci sono voluti 76 anni prima che “L’assassino”, scritto da Georges Simenon nel 1935, venisse tradotto in italiano, nel 2011, grazie ad Adelphi. Ci sarebbe da chiedersi il perché, ma del resto la stessa sorte è toccata ad altre opere dello scrittore belga (1903-1989). In Francia, il romanzo è stato pubblicato da Gallimard nel 1937. Resta il fatto che si tratta di una delle più riuscite narrazioni del Simenon al di fuori della produzione dedicata al Commissario Maigret. Lo stesso autore, nel 1948, scrive del suo libro che “se non uno dei migliori, è uno dei più significativi, e ciascun oggetto è disperatamente al punto giusto”. Dato che il capolavoro di Simenon (capolavoro a mio avviso), “L’uomo che guardava passare i treni”, è del 1938, vien fatto di domandarsi se quest’ultimo romanzo non sia lo sviluppo, logico e conseguente, delle stesse tematiche del precedente: un uomo integerrimo che diventa un assassino, la volontà di fuga da una vita domestica intollerabile, il desiderio di rompere il cerchio della mediocrità quotidiana, la ribellione al giudizio della piccola gente, la disperata ricerca di un’autoaffermazione che sfugge di mano non appena la trappola della realtà e delle convenzioni sociali si richiude sulle dita protese di chi ha provato a raggiungerla e ad afferrarla. 
Le vicende si svolgono a Sneek, in Olanda (da notare che anche “L’uomo che passava i treni” ha un protagonista olandese), dove il metodico e abitudinario Hans Kuperus svolge l’attività di medico, conducendo una vita ordinaria. La sua unica ambizione è divenire presidente del circolo del biliardo. Da qui in poi, occhio allo spoiler, necessario per argomentare una conclusione. Un giorno una lettera anonima lo informa del tradimento di sua moglie Alice, che ha una relazione clandestina con il rivale regolarmente eletto alla presidenza del club al posto suo. Ci vuole un anno prima che Kuperus si decida. Poi, freddamente, meccanicamente, sorprende i due amanti e li uccide. Non ci sono testimoni. Non lascia prove. Si è costruito un alibi. Nessuno osa accusarlo, benché in molti sospettino. Kuperus si accorge, anzi, che molti lo temono. I soci del circolo del biliardo lo eleggono presidente senza che neppure si debba candidare. L’assassino si inebria, diventa spavaldo, gode nel rendere pubblica la relazione che instaura con la cameriera Neel, rompe le amicizie ipocrite, cioè quasi tutte. Sennonché, il duplice delitto commesso avrebbe potuto restare sottaciuto dalla comunità, ma non lo scandalo che egli dà. Viene isolato. Il medico comincia a precipitare nell’abisso allorché si accorge che comunque non può fuggire dalla gabbia, e si trova a scoprire quale piccolo, insignificante evento ci sia dietro la lettera anonima all’origine di tutto. E se quell’evento da nulla non si fosse verificato? Se la lettera non fosse stata spedita? Se tutto avesse continuato a scorrere nel tran tran di prima? Sarebbe stato meglio? La domanda resta senza risposta nella mente ormai obnubilata del medico di Sneek, giunto sul baratro dell’autodistruzione.




sabato 25 ottobre 2025

FRA TINO

 

Athos
FRA TINO
Sbam!
2021, brossurato
128 pagine, 12 euro

In occasione dei quaranta anni di Fra Tino sulle pagine del Giornalino prima e di Famiglia Cristiana poi (1982-2021), la benemerita Sbam! pubblica una raccolta di tavole autoconclusive (che nel corso del tempo hanno preso il posto delle prime strip) scelte dallo stesso autore, sia dei testi che dei disegni, Athos. Una appassionata introduzione di Roberto Orzetti spiega tutto ciò che c’è da sapere sul personaggio, il suo autore e sul perché di Fra Tino ci si debba innamorare. Io, che da parte mia ho parlato di Athos e del suo delicato fraticello recensendo “Il Natale di Fra Tino” (cliccate sul tutolo per leggere ciò che ho già detto), non posso che sottoscrivere il testo del prefatore e ripetere alcuni concetti già espressi e alcune notizie già date, cominciando da disegnatore, l’emiliano (ma milanese di adozione) Atos Careghi (classe 1939), in arte Athos, vignettista all’opera a partire dal 1951 anche su varie altre testate (da La Settimana Enigmistica alla Gazzetta dello Sport). Fra Tino è un personaggio a fumetti sui generis, perché le nuvolette che danno il nome, in Italia, al fumetto stesso, proprio non ci sono: le tavole, essenziali anche nel tratto, sono rigorosamente mute. Eppure ciò che raccontano, nella stessa maniera di un film senza sonoro o dello spettacolo di un mimo, è immediatamente comprensibile anche (e soprattutto) dai bambini a cui principalmente sembra rivolgersi il delicato autore. Sembra, perché poi la poesia delle immagini riesce a sorprendere e far sorridere anche i più grandi. Il protagonista è un candido fraticello pelato, che vive con un piccolo gruppo di confratelli in un convento in cui ognuno è dedito alle proprie mansioni ma dove uno dei divertimenti è giocarsi scherzi a vicenda e soprattutto giocarne a Fra Tino, forse il più giovane, che però riesce ogni volta a ribaltare la situazione. Il fraticello  colora i fiocchi di neve, vede il bello e il poetico in ogni cosa, ama ed è riamato dagli animali,come un novello San Francesco, però senza stigmate. Nonostante il saio indossato dai personaggi, non si nota un intento di propaganda religiosa o confessionale, ma è indubbio che le tavole di Athos, così solari e gioiose, solleticano la spiritualità e spingono a guardare con occhi incantati la realtà materiale. Una curiosità: in una postfazione di Fiorella Grandi si citano i nomi dei confratelli di Fra Tino, che sarebbero Fra Poco, Fra Tanto, Fra Inteso, Fra Stornato, Fra Cassone, Fra Gile e Fra Golino. Il dubbio è come si sappiano, questi appellativi, essendo le strisce di Athos del tutto mute. Azzardo un’ipotesi, che però nel volume non trova conferma: forse sono citati in qualche titolo dato a qualche tavola?



venerdì 24 ottobre 2025

RANGER E FUORILEGGE



 
Francangelo Scapolla
RANGER E FUORILEGGE
Il Melangolo
2023, brossura
144 pagine, 14.50 euro

“Le origini di Tex: 1948-49”, recita il sottotitolo, chiarendo l’identità del Ranger e del Fuorilegge evocati dal titolo e dalla sagoma nera sulla copertina gialla, colori del resto non scelti a caso. Tuttavia, la lettura del saggio di Francangelo Scapolla lascia francamente perplessi. Vediamo perché. Il minore dei problemi consiste nel fatto che da pagina 15 a pagina 129 viene semplicemente tracciato il riassunto in prosa delle avventure a fumetti contenute, come si legge, nei primi 59 albetti a striscia (definiti “fascicoli”) della saga di Aquila della Notte,  quelli pubblicati tra il 30 settembre 1948 e il 5 gennaio 1950. Tutto ciò è specificato nella “nota bibliografica” dove si dice che a mandarli in stampa fu la Sergio Bonelli Editore ma, in realtà, mi si perdoni la pedanteria, si trattò delle edizioni Audace. Tuttavia c’è un’altra inesattezza: si cita come “cinquantanovesimo” l’albetto conclusivo della storia con il Sindacato dell’Oppio. Ecco, “L’infernale battaglia” è il n° 5 della II Serie della “Collana del Tex”. La I Serie conta 60 “fascicoli” (da “Il totem misterioso” a “I sicari del drago”), quindi “L’infernale battaglia” è il sessantacinquesimo, e non il cinquantanovesimo. Ciliegina sulla torta, la nota bibliografica cita il Maxi Tex “Nueces Valley”, dell’ottobre 2017, e specifica: “Script: Gianluigi Bonelli; Art: Aurelio Galleppini”. Gli autori, in realtà, sono Mauro Boselli (testi) e Pasquale Del Vecchio (disegni). 
Annotando come 110 pagine su 135 del saggio di Scapolla contengono, in ultima analisi, soltanto un pur articolato e gradevole resumé della prima serie a striscia (più un pezzettino della seconda), intendo dire che soltanto in sei pagine, dalla 9 alla 14, si accenna en passant al contesto editoriale al momento storico e culturale in cui Tex mosse i primi passi, alle fonti di ispirazione cinematografiche, alla figura degli autori, con una sintetica disamina che non aggiunge nulla a quanto già si sa e viene spesso ripetuto. Nel riepilogo delle avventure si sottolineano brevemente frasi e circostanze che servono a descrivere il personaggio così com’era caratterizzato nelle primissime storie seguendolo nella sua iniziale evoluzione, mettendo in evidenza la tempra eccezionale dell’eroe, di cui si lodano a ogni passo la forza, il coraggio, l’abilità, l’intuizione: “le risorse di Tex sono infinite”. Stranamente, si citano le storie degli albetti a striscia senza riferire anche della serie gigante (in questo caso, l’avventura del Sindacato dell’Oppio si conclude a pagina 56 del n° 5, “Satania!”), come se l’autore volesse vestire i panni del purista, fedele custode della tradizione delle primissime origini, ostentando diffidenza verso tutto ciò che è venuto dopo. La sensazione viene confermata dalle affermazioni di Scapolla fa nei capitoli “Premessa”, “Conclusioni” e “Incongruenze”. 
Vale la pena di citare quanto scritto: “Questo saggio è rivolto soprattutto ai lettori di Tex del terzo millennio che hanno scarsa (o nulla) memoria del personaggio delle origini, quello coniato e sceneggiato da Gianluigi Bonelli nel 1948. La personalità di Tex si è modificata nei decenni, essenzialmente da quando i soggettisti successivi a Bonelli hanno iniziato a ideare le trame delle nuove avventure. E in questo percorso Tex ha subito modifiche anche sostanzialmente nell’atteggiamento, nella figura, nel modo di fare, di esprimersi, di rapportarsi col mondo esterno. E’ mutata anche la filosofia del ranger, che non si muove più come un lupo solitario, ma in sintonia con i suoi pards. Quello foggiato e modellato da Gianluigi Bonelli aveva un temperamento anarchico e libertario, che rispecchiava, in una certa misura, la personalità dello stesso Bonelli”. Sembra di capire che il Tex delle origini, il lupo solitario, abbia cambiato pelle, cessando di essere anarchico e libertario, per colpa degli sceneggiatori che hanno preso il posto di Gianluigi Bonelli (compreso, evidentemente, suo figlio Sergio). Si dimentica, forse, che fu lo stesso Gianluigi a creare il quartetto dei pards, facendo rinunciare Tex alla figura del ribelle solitario, facendolo addirittura sposare, diventare capotribù e accettare l’incarico di agente indiano. L’ultima storia scritta da Bonelli senior è data 1991: ha sceneggiato le avventure del suo eroe per oltre quarant’anni. Inevitabilmente c’è stata un’evoluzione “nell’atteggiamento, nella figura, nel modo di fare, di esprimersi, di rapportarsi col mondo esterno”, e anche la filosofia del ranger, ma ciò è avvenuto per mano del creatore del personaggio. Si potrebbe persino sostenere che ciò che gli autori dei testi dal 1991 in poi hanno modificato molto meno dei cambiamenti operati da Gianluigi Bonelli.
Scapolla aggiunge: “Esistono pure incongruenze temporali: i lettori del terzo millennio sono convinti, ad esempio, che Tex sia nato nel 1838, e di conseguenza alcuni eventi importanti hanno subito uno slittamento e uno sfasamento impropri in rapporto alla reale età di Tex, come ad esempio la guerra di secessione americana”. Altra ciliegina: “I fatti che Bonelli aveva descritto sconfessano quelle ipotesi”. Dunque si ritiene che in presenza di incongruenze temporali facciano testo le indicazioni di Gianluigi, e si rinnega come anatema la data del 1838 come anno di nascita di Tex stabilita da Mauro Boselli e tenuta come punto fermo alla base della documentatissima collana “Tex Willer” varata con grande successo nel 2018. 
Qual è, dunque, la datazione proposta da Scapolla? A pagina 140 troviamo la risposta: “dovrebbe essere nato nel 1813/1814”. Per giustificare questa convinzione, il saggista spiega: “Nell’albo ‘Nueces Valley’, pubblicato nel Maxi Tex il 16 ottobre 2017, apprendiamo che Tex sarebbe nato nel 1838, e questa data è inverosimile, in quanto all’inizio della guerra civile (1861) avrebbe 23 anni, mentre secondo la versione di Bonelli e Galep ha già un figlio dell’età di Kit, quindi dovrebbe averne poco più del doppio”.  Ora, chiediamoci: a quale età di Kit si riferisce il dotto saggista? Indubbiamente a quella che dimostra nella storia in cui figura il generale Quantrell, datata 1955 (identifichiamola con il titolo “La traccia di sangue”, quello dell’albo a striscia n° 7 della Serie Smeraldo), in cui compaiono sudisti e nordisti ed è chiaramente in corso la Guerra di Secessione (la si ritrova sul Tex Gigante n° 24). In quella circostanza, Kit Willer dimostra diciotto anni (ma ha poca importanza: effettivamente c’è e sa tenere la pistola in pugno). Scapolla sembra però dimenticare che esiste un’altra avventura, sempre firmata da Bonelli senior e Galleppini, più matura e meglio circostanziata, “Tra due bandiere” (Tex Gigante n° 113, marzo 1970), in cui Aquila della Notte narra ai pards le sue avventure nella guerra tra Nord e Sud, e non solo il figlio si meraviglia di non saperne niente, ma il padre racconta fatti avvenuti durante la propria gioventù, quando faceva ancora il mandriano e Kit non era nato. 
Dunque esistono due versioni date dallo stesso creatore del personaggio, e poiché la seconda giunge dopo a correggere la prima, si deve dar credito a quest’ultima. Scapolla non lo fa perché, evidentemente, ritiene fonte di verità e oro colato solo ciò che compare sui “fascicoli” a striscia. Riguardo all’anno di nascita di Tex stabilito da Boselli, il saggista aggiunge: “E’ più che comprensibile che l’avvicendarsi di nuovi soggettisti in un arco di tempo tanto ampio possa aver ‘annebbiato’ il ricordo di tanti elementi basilari, scelti e inseriti da Gianluigi Bonelli”. Ma allora pare dunque che il primo “annebbiato” sia lo stesso Bonelli, che nel 1970 non ricorda, secondo il saggista, quel che di basilare aveva scritto nel 1955. Lascio tuttavia rispondere a Luca Raffaelli, che affronta il problema nel suo articolo “Un Eroe contro la Guerra” che fa da introduzione al volume n° 52 della Collezione Storica a Colori di Repubblica, dove leggiamo che “si può pensare che Bonelli abbia potuto dimenticare gli accenni alla Guerra di Secessione scritti anni prima. Ma sembra più interessante immaginare che da quelli siano nate idee che era giusto sviluppare nel momento in cui il suo personaggio avesse raggiunto la più alta maturità”. Scapolla elenca alcune altre incongruenze temporali, sempre sostenendo la tesi che facciano fede le storie delle origini, scordando però i tanti anacronismi rintracciabili proprio nelle prime avventure, a partire dalle vignette in cui compare addirittura un’automobile, una Ford T, che è stata fabbricata soltanto nel 1908. Gli esempi potrebbero sprecarsi. Ritenere attendibili, precisi e soprattutto coerenti i riferimenti storici riscontrabili nelle strisce di Tex è come credere che la Bibbia riferisca nel libro della Genesi gli esatti avvenimenti che portarono alla creazione del mondo. In un articolo sul sito “Lo Spazio Bianco” leggiamo: “All’epoca si scriveva di getto e i lettori non si facevano troppe domande: era bello così. Oggi gli sceneggiatori non se lo possono più permettere: devono essere più cauti, e valutare bene quali fatti storici far vivere al ranger e ai suoi pards”. Gianluigi Bonelli, come tutti o quasi gli sceneggiatori di fumetti degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, davano priorità all’avventura piuttosto che alla documentazione, che di certo non era neppure così facile da reperire come oggi. Per risolvere le incongruenze e le contraddizioni in cui si inciampa nelle prime storie di Tex, Mauro Boselli ha fatto e sta facendo i salti mortali, ed è riuscito a sanare gran parte delle difficoltà e delle aporie, restituendo al personaggio con la serie “Tex Willer” (quella dedicata al Tex ventenne) non soltanto una coerenza logica e cronologica così come una aderenza ai fatti storici, ma anche (udite udite) il primitivo spirito anarchico e libertario, e la sua caratteristica di lupo solitario. 



giovedì 23 ottobre 2025

L’ORIZZONTE DELLA NOTTE

 
 
Gianrico Carofiglio
L'ORIZZONTE DELLA NOTTE 
Einaudi
2024, brossurato
284 pagine, 18.50 euro

Chissà se i gialli di Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) si possono definire “police procedural”, e chissà se l’autore sarebbe d’accordo. Con la competenza che gli deriva dall’essere un ex magistrato, Carofiglio racconta le indagini del suo personaggio più fortunato, l’avvocato Guido Guerrieri, spiegandone mosse in ambito giudiziario, nei corridoi e nelle aule dei palazzi di giustizia o nelle sale riservate ai colloqui con i detenuti nelle carceri, in modo dettagliato e ben documentato, a vantaggio del coinvolgimento del lettore nelle vicende. 
Di Carofiglio e di Guerrieri abbiamo parlato in altre occasioni, una delle quali è la recensione de "La regola dell'equilibrio", che potete trovare cliccando qui
Per giustificare l’etichetta di “procedural” serve, a questo punto, citare lo scrittore Ed McBain il quale, nel 1956, con un romanzo intitolato “L’assassino ha lasciato la firma” inaugurò la serie dell’87° Distretto, che avrebbe finito per contare una sessantina di titoli. Una serie che cominciò a dipanarsi dopo che l’autore ebbe visitato le sale-agenti dei Dipartimenti di polizia, i tribunali, i laboratori della scientifica, le stanze dei confronti all’americana, il carcere di S. Quintino: il lettore che ne segue gli episodi trova riprodotti sulle pagine addirittura i fac-simile dei moduli e degli stampati in uso presso le Centrali, i bloc-notes dei poliziotti, le fotografie degli schedari. E le indagini vengono seguite passo dopo passo lungo l’itinerario di ricerche e di interrogatori tipico degli investigatori delle grandi città americane. Prima di McBain c’erano stati anche (pochi) altri che avevano scritto “police procedural” ma soltanto con l’87° Distretto protagonista dei romanzi non è più solo un investigatore, ma un’intera squadra di poliziotti, ognuno con le proprie caratteristiche, i propri pregi e  difetti. 
Di uno di questi romanzi, “Allarme: arriva la madama” potete leggere la mia recensione cliccando sul titolo.
Le pagine di McBain sono popolate di personaggi vivi, problematici, coinvolgenti, dotati di un tale spessore psicologico da far sembrare fredde pedine di una scacchiera i protagonisti dei gialli di Agatha Christie nei suoi gialli. “Sono del parere che le uniche persone qualificate per trattare con i criminali sono i poliziotti”, dichiara McBain in una intervista. “Nella realtà, se un investigatore privato trova un cadavere chiama subito la polizia. Gli investigatori privati si occupano di mariti infedeli. Gli investigatori delle compagnie di assicurazione si trovano raramente coinvolti in omicidio. E sicuramente le vecchie signore che vivono in una casa di campagna in Inghilterra non ci si trovano mai coinvolte”. Ecco, mi pare che Carofiglio sia della stessa idea, dato che Guido Guerrieri non è un investigatore privato ma un avvocato (dunque un addetto ai lavori), e dato che lo scrittore ha al suo attivo un’altra serie gialla dedicata a Pietro Fenoglio, maresciallo dei carabinieri, che conta finora tre romanzi (tra cui “L’estate fredda”, recensito su questo blog).
Da notare che anche Ed McBain è autore di una serie con protagonista un avvocato, Matthew Hope, che conta tredici titoli. “L’orizzonte della notte” è invece il settimo romanzo con Guido Guerrieri, legale barese dalla vita tormentata e dalle troppe elucubrazioni esistenziali. Il personaggio, peraltro, va dallo psicanalista Carnelutti nel cui studio si lascia andare in divagazioni filosofiche e letterarie, è caduto in una depressione che neppure il lavoro e la sua sacca da pugilato riescono ad alleviare. E’ invecchiato, dice di aver paura della morte e giunto alla soglia dei sessant’anni, per di più,  viene lasciato dalla fidanzata Annapaola, mentre la sua storica ex, Margherita, muore in seguito a una grave malattia. Il caso di cui Guido è chiamato a occuparsi, coinvolto dal suo più caro amico, Ottavio, gestore dell'Osteria del Caffellatte, una libreria “notturna”, riguarda Elvira Castell, affascinante e inquietante al tempo stesso, accusata di aver ucciso l'ex cognato Giovanni Petacci, ritenuto dalla donna responsabile del suicidio della sorella gemella Elena, che dal marito era stalkerizzata. Elvira non nega di aver sparato, ma afferma che si è trattato di un omicidio accidentale avvenuto durante un litigio, per legittima difesa. Il punto da dirimere è appunto questo: la Castell ha premeditato o no il suo gesto? Ci sono altri interessi in ballo, come l’eredità dei beni di Elena, o davvero alla base del delitto si possono individuare soltanto i rapporti tesi fra Elvira e il Petacci, sicuramente un violento? I dubbi sono tanti, l’atteggiamento dell’imputata è ondivago e a tratti irrazionale, tuttavia Guerrieri svolge in modo impeccabile le indagini e la difesa. Il finale è amaro, coerentemente con il sottotono della narrazione, più malinconica e meno brillante del solito, in ragione delle inquietudini del protagonista che comincia a meditare di lasciare l’avvocatura. Dispiace un po’ questa evoluzione-involuzione di un personaggio in crisi per scelta dell’autore, il quale continua però a dare sfoggio di stile, con la sua scrittura limpida, e incantevolmente essenziale e profonda al tempo stesso.


mercoledì 22 ottobre 2025

LE COPERTINE PERDUTE DI ZAGOR




Alessandro Piccinelli
LE COPERTINE PERDUTE DI ZAGOR
Sergio Bonelli Editore
2025, brossura
100 pagine, 29.90
Tiratura limitata (999 copie)

Alessandro Piccinelli è un copertinista di straordinario talento ormai entrato nel cuore dei lettori e  sono felicissimo di averlo proposto come prosecutore dell’opera di Gallieno Ferri riguardo le cover. Partiamo dal presupposto che Ferri è stato autore di copertine memorabili, che hanno scandito e segnato per oltre cinquant’anni la vita di generazioni di lettori. Qualunque sostituto avessimo scelto non avrebbe potuto essere all’altezza del maestro, agli occhi di lettori che da sempre identificano Zagor con la versione grafica data dal grande e inarrivabile ligure. Nel 2016, con la scomparsa di Gallieno, è stato necessario però sodstituirlo. Tra i disegnatori dello staff zagoriano c’erano sicuramente dei validi papabili, da Marco Torricelli (quello attivo da più tempo) a Joevito Nuccio, da Michele Rubini a Marco Verni, da Raffaele Della Monica agli Esposito Bros (e qui mi fermo per non citarli tutti). Qualunque nome fosse stato scelto avrebbe avuto dei tifosi pro e dei tifosi contro (e si sa che in genere è più facile criticare che trovarsi d’accordo). Il nodo principale da sciogliere era: vogliamo un copertinista che “assomigli” a Ferri, o qualcuno che faccia proposte di tipo diverso? Si ripeteva il dilemma del sostituto di Galep alle copertine di Tex: in quel caso fu scelto un giovane, Claudio Villa, che sicuramente rappresentava una svolta innovativa. Però il pubblico texiano è molto più abituato di quello zagoriano ad accettare interpretazioni diverse del personaggio da parte di disegnatori dagli stili più disparati. Quando si trattò di riunirci in redazione (io, il direttore, l’editore, il caporedattore) per stabilire il sostituto di Ferri, espressi tutte queste considerazioni e proposi la mia soluzione. I miei argomenti furono questi: primo, scegliere un outsider e non un disegnatore dello staff, in modo da non creare dissapori e rivalità; secondo, optare per qualcuno in grado di offrire una versione di Zagor più moderna ma non troppo moderna, che sapesse rinfrescare e innovare ma nel rispetto della tradizione; terzo, selezionare comunque un autore che per indole, carattere, passione conoscesse bene Zagor e la bonellità e il fandom bonelliano; quarto, affidarci a qualcuno con un forte senso della copertina, in grado di indovinare pose e situazioni da raffigurare. Ciò detto, mostrai tutta una serie di illustrazioni zagoriane realizzate da Piccinelli negli anni precedenti, per commission, quali regali agli amici, per portfolio, per pubblicazioni amatoriali. I partecipanti alla riunione non ebbero il minimo dubbio, nessuno avanzò controproposte, Alessandro Piccinelli venne immediatamente scelto. Dal 2016 a tutto il 2025 ho seguito, come curatore dello Spirito con la Scure, l’elaborazione di tutte le (tante) copertine richieste ogni anno dalle (tante) testate legate al Re di Darkwood, parlando con lui dell’argomento dei singoli albi, inviandogli le storie in visione, a volte suggerendo qualche soluzione o qualche aggiustamento di tiro, ma sempre trovandomi poi di fronte a tre, quattro ma anche cinque bozzetti: le proposte di Alessandro. Bozzetti peraltro molto definiti, come si può vedere sfogliando il volume “Le copertine perdute di Zagor”, talora tutti così belli da mettere in difficoltà me e Michele Masiero (il direttore editoriale, a cui spetta l’ultima parola) nell’operare una scelta. Dieci anni dopo l’esordio come cover man, ecco raccolti in volumi un centinaio di bozzetti a malincuore scartati, che volevamo non tenere soltanto per noi ma far ammirare a tutti (parlo al plurale, ma in questa iniziativa ho solo il merito della proposta, poi il curatore del libro è Luca Crovi e c’è anche lo zampino di Luca Del Savio). Precede l’antologia una interessante intervista a Piccinelli che dimostra tutta la passione per Zagor e per il suo lavoro, e che mi ha commosso nella risposta alla domanda: “Come ti sei sentito quando Moreno Burattini ti ha dato la notizia che eri stato scelto come nuovo copertinista di Zagor?”. Ricordo la sua emozione, ma anche la mia. 



martedì 21 ottobre 2025

L’ISOLA DEGLI IDEALISTI

 
 

Giorgio Scerbanenco
L’ISOLA DEGLI IDEALISTI
La nave di Teseo
2018, brossurato
230 pagine, 17 euro

Di fronte a piccoli capolavori come “L’isola degli idealisti”, e l’aggettivo “piccolo” è soltanto prudenziale, vien fatto di chiedere quanti altri gioielli inediti di Giorgio Scerbanenco (1911-1969), nascondano gli archivi. Infatti, questo straordinario romanzo è riemerso dopo oltre settantacinque anni dalla sua stesura, avvenuta tra il 1942 e il 1943 all’albergo Toledo sul lago d’Iseo, dove lo scrittore si era ritirato per poter lavorare (collaborava con diverse testate) al riparo dai bombardamenti che bersagliavano Milano, poco prima di fuggire in Svizzera (come fece anche Giovanni Luigi Bonelli, un altro milanese macinatore di trame). Cecilia Scerbanenco, nella sua prefazione, commentando il ritrovamento dell’opera e le poche notizie che riguardano la sua mancata pubblicazione dopo l’effettiva consegna alla stampa, si dice convinta che fosse stata commissionata dal “Corriere della Sera” per la pubblicazione a puntate (trenta, secondo un appunto dell’autore). Alcuni titoli andarono dispersi, “smarriti nel caos scatenatosi in tutta Italia dopo l’8 settembre del 1943”, spiega la prefatrice.  “Una macchina per scrivere storie”, così Oreste del Buono definiva Scerbanenco, narratore “in grado di scrivere quattro o cinque novelle, di mandare avanti due puntate di romanzi, di tenere due o tre rubriche di corrispondenza e di buttar giù, sempre nella stessa, unica settimana, un numero imprecisato di pezzi e pezzetti necessari al completamento di questa o quella testata”. Il corpus di romanzi e racconti dello scrittore ucraino naturalizzato milanese è sterminato e comprende opere dei generi più diversi  (fantascienza, rosa, giallo, western), anche se la vera popolarità gli venne, un po’ tardiva, con il ciclo noir dedicato al personaggio, un medico radiato dall’Albo per aver praticato una eutanasia, Duca Lamberti. Di Scerbanenco e della sua vita avventurosa abbiamo già parlato recensendo “Venere privata” (potete cliccare sul titolo per saperne di più).
Lo spunto de “L’isola degli idealisti” è brillante e originale: sull’Isola della Ginestra, un piccolo scoglio in mezzo a un non precisato lago, vive placidamente, intorno agli anni Trenta, la famiglia (decisamente benestante) del bizzarro Celestino Reffi, medico non praticante con la passione per la matematica e per gli esperimenti insoliti (come riuscire a far contare il cane di casa), composta, oltre che da lui, da sua sorella Carla, scrittrice sena successo e dal loro padre Antonio, otorinolaringoiatra in pensione, dai cugini spiantati Vittorio Bras e da sua moglie Jole, dall’alano Pangloss e dalla servitù, tra cui spicca il custode Marengadi. La tranquillità della villa abbarbicata sullo scoglio è infranta, una sera, dall’irruzione di due ladri d’albergo, Guido e Beatrice, braccati dalle forze dell’ordine, che chiedono di venire nascosti per la notte e di poter riprendere la fuga il mattino successivo. Celestino accetta di dare loro asilo a patto che si trattengano sull’isola dove lui si occuperà di educarli all’onestà: se ne andranno solo se diventeranno persone per bene. Un altro dei singolari esperimenti del giovane Reffi, agli occhi degli altri famigliari, che ne prevedono l’inevitabile fallimento ma non si oppongono. Il susseguirsi degli avvenimenti non è però tanto facilmente immaginabile e i colpi di scena si susseguono. Magistrale Scerbanenco nel caratterizzare ciascuno dei personaggi e nel farli muovere in modo imprevedibile, fino a rovesciare i pronostici.