domenica 28 febbraio 2016

TEMPO DI UCCIDERE


TEMPO DI UCCIDERE
di Ennio Flaiano 
Edizione Mondolibri Mondadori 
su licenza Longanesi 
1968, cartonato
276 pagine

E' l'unico romanzo di Ennio Flaiano, brillante giornalista, critico letterario e cinematografico, sceneggiatore di film, autore di fulminanti aforismi, spirito libero e sagace (pescarese, classe 1910, morto nel 1972). Uscito nel 1947, vinse la prima edizione del Premio Strega, battendo inaspettatamente scrittori molto più illustri. E meritatamente, essendo "Tempo di uccidere" un libro imperdibile. Incredibilmente moderno, per stile, tematiche, ritmo, nonostante la data di uscita e le caratteristiche della narrativa dell'epoca. Accattivante e drammatico al tempo stesso, ugualmente al tempo stesso intriso di italianità e di universalità, è ambientato durante la Guerra d'Etiopia, durante il fascismo, un'esperienza a cui l'autore parecipò davvero, e di cui scrisse su invito di Leo Longanesi, che poi gli pubblicò il romanzo. Protagonista ne è un giovane tenente italiano, che rimane anonimo, il quale, per una serie di vicissitudini, si smarrisce nella boscaglia africana e lì si imbatte in una donna di colore che fa il bagno, nuda, in una pozza d'acqua. Un po' per forza, un po' rassegnazione, un po' anche per complicità, l'etiope cede alle pressioni del militare che consuma con lei un rapporto sessuale. Dopodiché, però, sembra non volerlo lasciare andare, come se lei intendesse instaurato fra loro due un qualche tipo di legame. L'uomo non sa come comportarsi, e per un paio di giorni si intrattiene con lei, che si chiama Mariam, tra gli alberi, l'ombra dei quali diventa la loro alcova. Ma, una notte, accade un incidente: spaventato dai movimenti di grossi animali, forse leoni, nei dintorni del bivacco, il tenente spara verso l'oscurità e uno dei proiettili, rimbalzando, colpisce l'addome della ragazza, ferendola gravemente. Angosciato, senza sapere che fare, dove andare, temendo conseguenze, preoccupato anche dalle sofferenze della donna, l'ufficiale decide di finirla con un colpo in testa. E quindi la seppellisce sotto un cumulo di pietre. Tornato al reparto, il militare crede di poter chiudere l'accaduto in un cofano della memoria e buttar via la chiave. Invece, una strana piaga che si crea su una mano lo convince di essere stato contagiato dalla lebbra: in effetti la donna viveva isolata, come era usanza presso le tribù africane. Il tenente si vede perduto, crede finito il suo matrimonio (ha una moglie in Italia), teme di finire in un ospedale per il resto dei suoi giorni, e si convince anche che il suo delitto finirà per essere scoperto: anzi, un vecchio etiope e un bambino di colore, gli unici sfuggiti a una strage che ha coinvolto il villaggio di Mariam, sembrano perseguitarlo, pur senza minacciarlo, come se sapessero ciò che ha fatto. Convinto di venire denunciato da un medico a cui ha mostrato la piaga, l'ufficiale approfitta di quaranta giorni di licenza per fuggire nella boscaglia, e si rifugia proprio presso il vecchio, con cui convive per più di un mese, tormentato dal rimorso e dalla convinzione di essere già braccato dai carabinieri che lo cercano. Alla fine, quando ha scoperto che il vecchio è il padre di Mariam e che sa tutto della sorte di lei, fra i due si è creato un legame: l'uomo esamina la ferita dell'assassino della figlia. Non è lebbra: basterà un suo impiastro per curarla. Il tenente torna al suo reparto: poiché era in licenza, nessuno lo cerca, nessuno vuole arrestarlo, nessuno lo accusa di niente. Anzi, è previsto un ritiro delle truppe e il ritorno a casa, in Italia. Un meraviglioso apologo sulla colpa, sul senso di colpa, sull'elaborazione della colpa, sul percorso da fare per uscirne fuori, sul perdono. Ma anche sulla percezione della realtà e su come i nostri atti, tutti, abbiano conseguenze imprevedibili. Una storia allucinata ma realistica al tempo stesso. Non c'è bisogno di abbandonare gli agganci al reale per proporre delle metafore. La realtà è la metafora di se stessa.

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