martedì 30 gennaio 2018

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO?




Andrea Muzzi
Bruno Santini
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO?
Sarnus
2017, brossurato

100 pagine, 7 euro


Andrea Muzzi e Bruno Santini, entrambi attori e conduttori radiofonici, hanno dato a questo loro divertente zibaldone il titolo di una loro altrettanto divertente trasmissione in onda su Radio Fiesole da diversi anni. "Traumi del passato e del presente, dal fotoromanzo al selfie", spiega il sottotitolo. In effetti la carrellata di aneddoti e di ricordi proposti dagli autori non si limita a far leva sulla nostalgia (ah, bei tempi quando si giocava alla campana tracciata con il gesso nel cortile di cada e si pagava pegno con "dire fare baciare lettera testamento") ma anche nel verificare che cosa abbia sostituito, ai giorni nostri, i divertimenti di un tempo. E il confronto, per quanto mi riguarda, è impietoso: decisamente si stava meglio quando si stava peggio. I capitoli sono brevi e brillanti, spesso si ride di gusto come quando, trattando dei canali tematici dedicati a ogni sport possibile e immaginabile al posto del solo calcio della TV di una volta, si parla di quelli dedicati alla caccia e alla pesca e si cita una trasmissione dal titolo "Oggi non abboccano" in cui, per tutta la puntata, si vede un pescatore che non pesca nulla. Noi che abbiamo giocato ai cowboy con i cinturoni giocattolo, collezionato figurine, giocato a flipper, messi cento lire nei juke-box, spedito cartoline e visto i musicarelli non potremo mai entusiasmarci per i social e i selfie.

lunedì 29 gennaio 2018

IL MISTERO DEL SACRO GRAAL



Graham Hancock
IL MISTERO DEL SACRO GRAAL
Piemme
Tredicesima edizione 1996
cartonato - 590  pagine -  lire 45000

Il vero mistero di questo libro è il titolo italiano (non quello originale, "The Sign and the Seal", che é corretto): cioè, del Sacro Graal proprio non si parla. Ovvero, se ne accenna di sfuggita alludendo alla possibilità che sia identificabile con l'Arca dell'Alleanza. Ed è proprio quest'ultima l'oggetto pressoché esclusivo degli interessi dell'autore, e solo di quella in pratica si parla in questo affascinante saggio del 1992. Ora, la cosiddetta "fantarcheologia" di solito viene guardata con ironia se non sbeffeggiata, e a ragione, dagli studiosi che si basano su metodi scientifici. Non si può tuttavia negare come, in certi casi, la divulgazione presso il grande pubblico dei temi legati agli enigmi della storia delle antiche civiltà sia condotta con perizia didascalica da alcuni autori che dimostrano anche di conoscere abbastanza bene la materia che maneggiano, anche se lo fanno in modo non ortodosso.    Solitamente, le ricostruzioni di certi saggisti che si cimentano nelle indagini sui grandi misteri della storia sono accettabili finché si tracciano i contorni del problema, poi diventano insostenibili al momento di fornire una spiegazione o tirare le somme. Graham Hancock fa la cronistoria di una caccia durata diversi anni seguendo le tracce dell'Arca perduta, fino a una soluzione data per certa, con l'indicazione esatta del luogo dove si trova adesso, anche se poi, materialmente, lui non l'ha vista. L'autore sa accattivarsi l'interesse del lettore e offre continuamente prove di credibilità citando fonti precise e documentando fino alla minuzia ogni sua affermazione; inoltre dimostra una notevole cultura e conoscenza di testi; personaggi, luoghi. Non si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un ciarlatano, anzi, si vorrebbe che molti scritti di storici o divulgatori paludati e acclamati portassero così tanti riscontri quanto lui e visitassero i luoghi di cui parlano conducendo le loro indagini.  Tanto sforzo documentativo non infogna il testo nella cloaca della pedanteria o della noia, al contrario lo stile è brillante come quello di una inchiesta giornalistica e seguire lo svolgimento delle argomentazioni capitolo dopo capitolo è divertente come partecipare a una caccia al tesoro. Il lettore, dopo oltre 500 pagine di suggestiva ricostruzione un percorso, può perfino arrivare a credere che le ipotesi di Hancock siano da prendere un considerazione. Ci si chiede anzi perché gli storici e gli archeologi  non si affrettino a dargli conferma oppure a smentirlo. In fondo dovrebbe essere facile andare là dove viene indicato e vedere se l'Arca c'è o non c'è, visto che Hanckock non ha potuto vederla solo perché si è trovato di fronte all'insormontabile veto di Gebra Mikail, il monaco etiopico che ne é il custode. Quel che ad Hancock è stato vietato perché privato cittadino, sarà pure consentito a uno stuolo di scienziati muniti di tutte le necessarie autorizzazioni. La tesi dell'autore è che l'Arca sia stata portata via da Tempio di Gerusalemme in un periodo in cui, dopo il regno di Salomone, i re del popolo di Israele non furono altrettanto saggi e illuminati, e uno in particolare incoraggiò addirittura il culto degli idoli. I sacerdoti la nascosero altrove, per la precisione in Egitto, sull'isola Elefantina posta nel Nilo, dove effettivamente ci sono i resti di un tempio ebraico. Nel frattempo in Israele le cose peggiorarono e ci furono invasioni e deportazioni ripetute, i secoli passarono e l'Arca non fu più riportata. Anzi, fu trasferita in Etiopia, dove esisteva (ed esiste tutt'oggi) una comunità ebraica locale, detta dei falasha. E nella città di Axum, in un monastero chiuso al mondo e dimenticato da tutti, ancora oggi si conserva l'oggetto più misterioso della storia.  Dove Hancock è meno credibile, anche se il suo racconto non è privo di suggestione, è quando parla di quello che potrebbe essere effettivamente l'Arca, e dell'origine dei suoi poteri. La Bibbia è piena di testimonianze di come l'Arca potesse portare la morte se maneggiata incautamente, ed emettere fuoco  radiazioni mortali a danno di chi, anche con buone intenzioni, gli si avvicinasse senza precauzioni. Hancock fa risalire questi poteri alla tecnologia atlantidea, e collega la figura di Mosé, "salvato dalle acque", a quella degli scienziati di Atlantide scampati all'inabissamento della loro terra. Insomma, si va a cadere nel terreno della fantarcheologia, quella secondo la quale le stesse piramidi non possono essere frutto delle conoscenze scientifiche degli antichi egiziani e che ci devono essere state influenze da parte di una scienza più avanzata. E questo è appunto l'argento di successivi libri di Hancock, come "Impronte degli dei".

domenica 28 gennaio 2018

IL MESTIERE DI SCRIVERE


Raymond Carver
IL MESTIERE DI SCRIVERE
Einaudi
Tascabili Stile Libero
maggio 1997
A cura di William L. Stull e Riccardo Duranti
brossurato - 178 pagine -  lire 13.000

Questa breve ma aurea antologia di scritti carveriani non offre testi letterari dello scrittore americano Raymond Carber (Clatskanie, 25 maggio 1938 – Port Angeles, 2 agosto 1988), ma solo suoi articoli o brevi saggi autobiografici e autocritici, più alcune testimonianze. Però la lettura del libro basta e avanza per capire quale sia il talento dell’autore e la sua levatura letteraria. Lo stile dei suoi saggi è già testimonianza dello stile dei suoi racconti, giacché uno che scrive in maniera così chiara eppure così musicale e poetica non può che essere un grande artista della penna. Di Carver, del resto, si dice che scrivesse racconti come se scrivesse poesie, e poesie come se scrivesse racconti. Maniacale la sua attenzione alla cura dell’espressione, alla scelta delle parole e perfino della punteggiatura. Citando Isaac Babel, dice: “Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto”. Scrive Carver: “Le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio siano quelle giuste”. E ancora: “Se non si riesce, dico io, a rendere quel che si scrive al meglio delle nostre possibilità, allora che si scrive a fare?”. La parte autobiografica dell’antologia ci racconta di un uomo che si è fatto da solo, incarnazione letteraria del sogno americano: nato povero, maturato attraverso grande difficoltà, segnato dall'alcolismo, con una famiglia da mantenere, autodidatta e infine scrittore di racconti e poesie di grande successo. Raymond Curver tenne a lungo anche dei corsi di scrittura creativa, che inizialmente costituirono, certamente, anche un modo per guadagnarsi da vivere, ma poi diventarono un esercizio alla disciplina anche per lui e rappresentarono un suo modo di essere: si dice che le sue lezioni fossero memorabili. Carver era consapevole del suo "mestiere" e rifletteva sul senso del narrare confrontandosi con grandi scrittori suoi maestri (da Cechov a Hemingway) in particolare sulla forma della short-story, quella a lui più congeniale. Curato dal biografo americano di Carver e da uno dei suoi traduttori, "Il mestiere di scrivere" raccoglie brevi saggi, note e articoli che hanno come tema la letteratura e il suo insegnamento. C'è anche un prezioso inedito: la trascrizione della registrazione di un’intera lezione di scrittura nella quale l’autore, in modo  colloquiale, esamina  i racconti dei suoi allievi. Per Carver il lavoro dello scrittore consiste nella capacità di liberarsi del superfluo. Detestava i "trucchi" letterari, anche quelli ben riusciti: "Niente trucchi da quattro soldi - consigli per scrivere onestamente" è infatti il titolo di un altro suo celebre saggio. Si legge in quarta di copertina: «Il rispetto e l’amore per la nitidezza, la precisione, l’attenzione al dettaglio che cerca di comunicare ai suoi studenti sono il frutto di una ricerca letteraria che non è possibile separare – e questo libro, così intimo e personale, ne è una testimonianza – dalla vita dello scrittore. Completa il volume una sezione di “cinquanta esercizi di scrittura creativa” con l’indicazione dei racconti nei quali Carver “svolge” il tema proposto nell’esercizio».

lunedì 22 gennaio 2018

MR. LAUREL & MR. HARDY





John McCabe
MR. LAUREL & MR. HARDY
Sagoma Editore
2017, brossurato
300 pagine, 18 euro


"L'unica biografia autorizzata di Stanlio e Ollio", recita il sottotitolo. Non vuol dire che non sia veritiera o che taccia chissà che, ma che fu scritta nel 1961 quando Stan Laurel era ancora in vita (morì nel 1965, mentre Oliver Hardy era scomparso nel 1957), ed è basata sul suo fondamentale contributo. Quasi in ogni capitolo vengono riferiti i lucidi ricordi di prima mano del grande comico inglese, che fu la mente del duo. McCabe, critico teatrale specializzato nella produzione shakespeariana, era riuscito, in realtà, a intervistare anche Babe Hardy (Babe era il nomignolo con cui tutti chiamavano Ollio al di fuori del set) nel 1954, ma questi se la cavò dicendo che per raccontare la sua vita ci sarebbe voluto poco tempo: c'era poco da scrivere su di lui. E spiegava: "Stan potrebbe parlarle di tutto il materiale comico che abbiamo realizzato nei film, e per quanto riguarda la mia vita non è stata molto interessante: io non ho fatto altro che recitare un sacco di gag davanti a una cinepresa e giocare a golf nel tempo che rimaneva". Non è così, naturalmente: anche Norvell Hardy (Oliver era il nome di suo padre) fu protagonista di una vicenda umana piena di avvenimenti. Fu giocatore di football (il migliore della squadra), arbitro sportivo, tenore in grado di esibirsi in do di petto che strappavano gli applausi degli ascoltatori e come tale cantante in una compagna di musicanti della Georgia (dov'era nato nel 1892), proprietario di cinema, attore specializzato nelle parti del cattivo in decine di film prima di cominciare a far coppia con Laurel, perfezionista sul set e dotato di una memoria prodigiosa nell'imparare i copioni. Tuttavia è vero che dopo aver girato un film tornava a occuparsi dei suoi hobby mentre Stan, che già si era occupato del copione, restava a seguire il montaggio. Il vero cognome di Stanlio era Jefferson: decise di cambiarselo quando si accorse che il nome Stan Jefferson era composto da tredici lettere (gli attori di teatro, com'era lui, sono sempre scaramantici). Scelse "Laurel" solo perché suonava bene. Era nato a Ulverston, bei pressi di Glasgow, nel 1890. Suo padre era un attore, e anche il figlio volle seguirne le orme, entrando a far parte di compagnie di vaudeville, allo stesso modo del quasi coetaneo Charlie Chaplin (più vecchio di lui di un solo anno), con cui si trovò a lungo a recitare e di cui, anzi, fu spesso in sostituto sulle scene. I due viaggiarono insieme verso l'America, per una turnee che poi li avrebbe visti restare nel Nuovo Mondo e quindi lavorare in California nella nascente industria cinematografica. Cresciuto alla scuola del teatro comico e dell'avanspettacolo, Stan era uno straordinario gagman: fu principalmente per scrivere gag che il produttore Hal Roach (quello che Mack Sennett riteneva il suo unico vero concorrente nel realizzare comiche) lo scritturò, così come, in separata sede, aveva scritturato Oliver Hardy. Il saggio di John McCabe ripercorre tutte le tappe dell'avvicinamento di Stan e Oliver, fino al loro casuale esordio in coppia in una comica qualunque, "Get 'Em Young", del 1926. Roach capì che quei due non avrebbero più dovuto venire divisi. Il resto è storia del cinema, e storia di tutti noi spettatori che con Stanlio E Ollio abbiamo riso fino alle lacrime, in barba a tutti i critici paludati che li hanno snobbati (i due hanno vinto un solo Oscar, nel 1932, per il miglio cortometraggio: "The Music Box"). Infinite sono state le loro invenzioni visive e sonore (Laurel e Hardy seppero intuire le potenzialità comiche del rumori, oltre che delle loro buffe voci), ma soprattutto straordinaria è la loro poetica. McCabe dimostra come le gag non fossero banali ma frutto di studi, prove, calcolo del tempi sulla base delle risate previste. Per lungo tempo Stan e Oliver non si resero conto di quanto fossero diventati popolari: solo quando, dopo una decina di anni dal loro primo film, fecero un viaggio insieme in Europa per quella che doveva essere una vacanza, scoprirono di non poter muovere un passo senza essere assediati da masse di ammiratori. E la cosa è durata anche dopo il passaggio dai cortometraggi ai film lunghi e dopo la fine della collaborazione con Hal Roach (fu Stan a litigarci) e la negativa esperienza con la 20h Century Fox. Nell'ultima parte della loro carriera girarono il mondo con dei tour teatrali che fecero ovunque il tutto esaurito: sembrava che avessero smesso di fare film il giorno prima. Le loro comiche venivano trasmesse in TV e Stan si lamentava della pubblicità che le interrompeva: ci aveva sudato sette camicie per fare un certo ritmo al montaggio e tutto quel lavoro veniva sciupato così. Stan e Oliver erano tutto l'opposto, nella vita reale, di quel che appariva sullo schermo: Ollio che fa il gradasso e il so-tuto-io in realtà era un signore timido e riservato, un marito dolce e fedele; Stanlio stupidello piagnucoloso era un lavoratore instancabile in grado di tener testa a registi e produttori e di vivere travolgenti storie d'amore passando da un matrimonio all'altro. Una cosa però li accomunava e assomigliava ai loro personaggi: la bontà d'animo e la gentilezza verso chiunque. Furono inoltre veri amici, sempre. Non è vero che morirono poveri, anche se non hanno mai visto un cent dello sfruttamento economico pluridecennale dei loro film. Pagati una volta, pagati per sempre. Però seppero investire i loro guadagni e morirono da benestanti. Il libro di McCabe si apre con l'orazione funebre letta da Dick Van Dyke al funerale di Stan, che si conclude con una poesia composta da Stan stesso: "Dio benedica i clown".

domenica 21 gennaio 2018

SETTE ANIME DANNATE


Tiziano Sclavi
Corrado Roi
SETTE ANIME DANNATE
Mondadori
Ottobre 1996 - cartonato
160 pagine - lire 38.000

Si tratta della riproposta in volume cartonato di grande formato, e a colori di Dylan Dog, uno dei primi Speciali, quando ancora Tiziano Sclavi scriveva un capolavoro dopo l'altro e quel che succedeva si capiva anche se era folle e visionario.  C'erano idee geniali e coinvolgimento emotivo, si restava avvinti dalla lettura e colpiti dal finale, aperto o chiuso che fosse. Negli anni Novanta la Mondadori (a quei tempi la Bonelli non aveva una propria linea da libreria) dava alle stampe un volume del genere ogni sei mesi, alternando la riedizione della storie della serie regolare a quelle degli Speciali. Quando si trattava di uno Speciale, veniva aggiunto un breve racconto inedito. Nel caso di "Sette anime dannate" la storia breve è direttamente collegata con il racconto principale, e non a caso si intitola "L'epilogo". Nella recensione che segue sono contenuti degli spoiler per cui sete avvisati. Sette diversi personaggi, tra cui Dylan Dog, vengono convocati a Xanador, la misteriosa dimora di un ancora più misterioso personaggio. I sette hanno sentito tutti un irresistibile impulso a presentarsi in quel posto, tranne Dylan che invece ha ricevuto un acconto di diecimila sterline affinché vi si recasse. L'anfitrione non si presenta di persona, ma accoglie i personaggi e comunica con loro tramite marionette parlanti dal funzionamento incomprensibile. Non ci vuole molto per capire che i sette sono stati convocati lì per essere giustiziati. Uno per uno, muoiono tutti, uccisi ognuno in un modo diverso dall'altro. La storia segue insomma la falsariga del romanzo di Agatha Christie "Dieci piccoli indiani", citato più volte anche nel racconto. Ben presto è chiaro anche il motivo per cui gli invitati a Xanador (che, come quelli della Christie, non possono fuggire dalla casa) sono sette anziché dieci: ciascuno rappresenta un peccato mortale, incarna uno dei sette vizi capitali. Dylan crede di riconoscere per sé quello dell'accidia. Alla fine, proprio Dylan è l'ultimo sopravvissuto: come nel romanzo, prende la pistola per suicidarsi. Ma, a differenza di quanto accade nel romanzo della Christie, non lo fa: spara invece al misterioso anfitrione finalmente decisosi a rivelarsi. E' uno degli invitati, che si credeva morto con la testa tagliata. Così come il capo mozzo non gli è stato di danno, anche il colpo di pistola di Dylan gli fa solo il solletico: del resto, lui è un angelo vendicatore, una entità ultraterrena addetta allo sterminio di coloro i quali hanno scritto nel destino di dover morire. E poiché un simile compito, a lungo andare, diventa noioso, l'angelo ha deciso di imbastire una messinscena: quella di Xanador, appunto. I convocati, ogni volta, sono persone che devono comunque tirare le cuoia. Per questo non possono ribellarsi all'impulso di recarsi a Xanador, dove l'angelo trova il modo di farli fuori utilizzando un agente umano. L'angelo non può macchiarsi le mani di sangue di persona, ma è in grado di muovere chiunque come un pupazzo. Dylan Dog è stato appunto convocato non per essere una vittima, ma per essere l'assassino. In stato di incoscienza, manovrato dall'essere ultraterreno, Dylan ha compiuto tutti gli omicidi. Spiega l'angelo vendicatore: «Ce ne sono tanti, di dei... Allah, Buddah, Jehova... e anche in una stessa religione, poniamo quella cattolica, c'è il Dio buono e caritatevole e quello biblico della vendetta e del sangue... ecco, diciamo che io sono al servizio di quest'ultimo». Dylan, eseguito suo malgrado il proprio compito, è libero di andarsene. E lui lo fa, non prima di aver restituito disgustato il denaro dell'anticipo e aver sputato in faccia al padrone di casa. Quando il nostro eroe è già lontano, a Xanador arriva un altro gruppo di visitatori. Sempre pSclavi e Roi hanno firmato il breve racconto inedito, "L'epilogo", in cui Dylan torna a Xanador e gioca la partita finale con l'angelo vendicatore. Per tutto il breve racconto sembra che sia il destino del nostro eroe a diversi compiere, e che lui sia stato convocato lì, come accadeva in genere agli invitati, per godere di una morte spettacolare e scenica visto che comunque avrebbe dovuto morire. Invece, alla fine, si scopre che a dover morire è l'angelo. «Quando ho saputo che la mia fine era stabilita, ho cercato di ricordare tutta la mia lunga vita - spiega l'essere ormai rantolante - ma di secoli e secoli non era rimasto niente... solo un enorme vuoto, tranne una cosa... un unico breve istante... e quando mi è stato chiesto come volevo morire, avevo quel solo ricordo: voi che mi sputavate in faccia. E ho detto: ecco, voglio essere ucciso da quel piccolo, miserabile uomo...». Troppo metafisica per essere convincente come un giallo o come un thriller, la storia si legge comunque con angoscia e interesse. Corrado Roi è Corrado Roi, nel bene e nel male. Bene, più che altro.



sabato 20 gennaio 2018

IL DIZIONARIO DEI MOSTRI



Franco Fossati
IL DIZIONARIO DEI MOSTRI
Vallardi
Collana Domino
Prima edizione 1993
brossurato - 286 pagine - lire 10.000

I preziosi volumetti della collana Domino della Vallardi, piccoli nelle dimensioni ma grandi nei contenuti, aggiunsero con questo Dizionario (quando ancora c'erano e avevano uno scopo)  un altro pezzo di pregio alla loro collezione. Il prolifico poligrafo, indimenticabile e rimpianto, Franco Fossati (di cui ho avuto il privilegio di essere stato amico e a cui è intitolato un premio per la saggistica critica a fumetti), già autore di un agile librino allegato a un Dylan Dog Special ("I mostri dalla A alla Zeta"),  è enciclopedico come al solito (ne parlo al presente perché le sue tante opere rimangono attuali). Stavolta prende in esame, uno dopo l'altro oltre cinquecento creature fantastiche e orrorifiche dell'immaginario collettivo. Il naturalista francese Leclerc Buffon, citato nell'introduzione, sosteneva che i mostri possono essere di sole tre categorie: per eccesso, per difetto, o per inversione delle parti. In ogni caso, per dirla con Balzac, i mostri sono meno rari dei miracoli. Quelli citati nel Dizionario di Fossati sono per lo più di mostri letterari o cinematografici, collegati e collegabili con quelli delle leggende e dei miti (finiti quasi tutti nei romanzi e nelle pellicole), più alcuni mostri "veri",  serial-killer e autori di orrendi delitti, oppure "freak" come John Merrick, l'Uomo Elefante. Alcuni voci riguardano poi personaggi a fumetti o della narrativa in generale che non sono mostri loro stessi ma che con i mostri hanno di solito a che fare, quali Martin Mystére e Dylan Dog; ci sono poi scrittori, registi, attori, produttori, riviste che hanno fatto la storia del genere horror. Le voci sono brevi ed essenziali, ma in genere offrono informazioni corrette e comprensibili. C'è persino "Babbo Natale". «Com'è possibile vedere in Babbo Natale un mostro? Eppure, per l'emozione o la paura di vedersi improvvisamente di fronte un Babbo Natale che le portava un dono, una bambina di quattro anni, Francesca Barioli di Mira (Venezia) è morta il 25 dicembre 1967». Davvero terrificante.