Primo Levi
LA TREGUA
Einaudi
2014, brossurato
234 pagine, 13 euro
Non c’è niente da ridere, naturalmente. Però, ne “La tregua” di Primo Levi (1919-1987) ci sono senza dubbio anche pagine che muovono al sorriso. Lo stesso, del resto, si potrebbe dire di un altro diario di guerra, “Un anno sull’altipiano”, di Emilio Lussu, quando vengono narrati aneddoti di variopinta e sagace umanità. Il secondo libro di Levi dopo quello dell’esordio, “Se questo è un uomo” (1946) inizialmente passato inosservato, racconta l’avventuroso ritorno a Torino dell'autore nell’ottobre del 1945, dopo la liberazione del lager di Auschwitz, in Polonia, avvenuta nel gennaio dello stesso anno. Per alcune settimane, gli internati del campo rimangono nelle loro baracche e continuano a morire di stenti e di malattie, anche in assenza degli aguzzini nazisti. Poi, il destino decide chi sono i salvati e chi i sommersi. Primo Levi, chimico ed ebreo torinese entrato in clandestinità fra le fila partigiane, era stato arrestato nel dicembre 1943 in Val d’Aosta e tradotto ad Auschwitz nel febbraio del 1944. Lì, riesce a sopravvivere un anno, fino alla fuga dei tedeschi pressati dall’avanzata dell’esercito sovietico. Proprio i russi si fanno carico degli scampati allo sterminio, in una situazione comunque precaria che non risparmia ai liberati altri mesi di privazioni, fame, traduzioni in treno in carri merci in viaggi apparentemente senza senso, tragitti verso destinazione ignote. Neppure la notizia della fine della guerra significa, per Levi e i suoi compagni, che sia giunto il momento del rimpatrio. Il percorso che avrebbe potuto essere lineare assume la forma di un arabesco tra i confini polacchi, bielorussi, russi, rumeni, austriaci, in una odissea durata dieci mesi, attaverso l'Europa distrutta dalla guerra. La prima parte del diario, ambientata ad Auschwitz, è molto drammatica, sia pure scritta con registro asciutto senza indulgere sull’orrore del lager, come pure sarebbe stato lecito, ma anche senza nascondere o tacere niente. Tragico per esempio, il ritratto del bambino Hurbinek, nato (non si sa come) nel campo e lì sempre vissuto nei suoi tre o quattro anni, che non sa neppure parlare ma lotta caparbiamente per la vita. Dopo la partenza dal campo di sterminio comincia a prevalere la speranza, sempre frustrata da cocenti disillusioni. Iniziano però anche gli aneddoti sull’inventiva degli ex-prigionieri per procurarsi da mangiare, o scarpe da calze, ragazze da sposare o soltanto da portare a letto. Fra i compagni di Levi facciamo la conoscenza di Cesare, in grado di vendere qualunque cosa a chiunque pur parlando soltanto romanesco, ma anche del medico Leonardo, a cui lo scrittore fa da infermiere, del gigantesco veneto Avesani, detto il Moro, gran bestemmiatore. Ma si descrivono anche gli arrivisti, gli intrallazzatori, i manipolatori, i millantatori. Colpisce il resoconto degli spettacoli teatrali organizzati durante la permanenza a Staryje Doroghi, la “casa rossa”, segno di una insopprimibile desiderio dell’animo umano di esprimersi attraverso l’arte. Il titolo “La tregua” si riferisce alla breve pausa fra una guerra e le successive, ma anche alla parentesi nella vita di Primo Levi costituita dagli assurdi mesi del viaggio verso casa. Il libro ebbe subito un grande successo e vinse la prima edizione del Premio Campiello, riaccendendo l’attenzione, in Italia e all’estero, anche su “Se questo è un uomo”. Da leggere, assolutamente, tutti e due.
LA TREGUA
Einaudi
2014, brossurato
234 pagine, 13 euro
Non c’è niente da ridere, naturalmente. Però, ne “La tregua” di Primo Levi (1919-1987) ci sono senza dubbio anche pagine che muovono al sorriso. Lo stesso, del resto, si potrebbe dire di un altro diario di guerra, “Un anno sull’altipiano”, di Emilio Lussu, quando vengono narrati aneddoti di variopinta e sagace umanità. Il secondo libro di Levi dopo quello dell’esordio, “Se questo è un uomo” (1946) inizialmente passato inosservato, racconta l’avventuroso ritorno a Torino dell'autore nell’ottobre del 1945, dopo la liberazione del lager di Auschwitz, in Polonia, avvenuta nel gennaio dello stesso anno. Per alcune settimane, gli internati del campo rimangono nelle loro baracche e continuano a morire di stenti e di malattie, anche in assenza degli aguzzini nazisti. Poi, il destino decide chi sono i salvati e chi i sommersi. Primo Levi, chimico ed ebreo torinese entrato in clandestinità fra le fila partigiane, era stato arrestato nel dicembre 1943 in Val d’Aosta e tradotto ad Auschwitz nel febbraio del 1944. Lì, riesce a sopravvivere un anno, fino alla fuga dei tedeschi pressati dall’avanzata dell’esercito sovietico. Proprio i russi si fanno carico degli scampati allo sterminio, in una situazione comunque precaria che non risparmia ai liberati altri mesi di privazioni, fame, traduzioni in treno in carri merci in viaggi apparentemente senza senso, tragitti verso destinazione ignote. Neppure la notizia della fine della guerra significa, per Levi e i suoi compagni, che sia giunto il momento del rimpatrio. Il percorso che avrebbe potuto essere lineare assume la forma di un arabesco tra i confini polacchi, bielorussi, russi, rumeni, austriaci, in una odissea durata dieci mesi, attaverso l'Europa distrutta dalla guerra. La prima parte del diario, ambientata ad Auschwitz, è molto drammatica, sia pure scritta con registro asciutto senza indulgere sull’orrore del lager, come pure sarebbe stato lecito, ma anche senza nascondere o tacere niente. Tragico per esempio, il ritratto del bambino Hurbinek, nato (non si sa come) nel campo e lì sempre vissuto nei suoi tre o quattro anni, che non sa neppure parlare ma lotta caparbiamente per la vita. Dopo la partenza dal campo di sterminio comincia a prevalere la speranza, sempre frustrata da cocenti disillusioni. Iniziano però anche gli aneddoti sull’inventiva degli ex-prigionieri per procurarsi da mangiare, o scarpe da calze, ragazze da sposare o soltanto da portare a letto. Fra i compagni di Levi facciamo la conoscenza di Cesare, in grado di vendere qualunque cosa a chiunque pur parlando soltanto romanesco, ma anche del medico Leonardo, a cui lo scrittore fa da infermiere, del gigantesco veneto Avesani, detto il Moro, gran bestemmiatore. Ma si descrivono anche gli arrivisti, gli intrallazzatori, i manipolatori, i millantatori. Colpisce il resoconto degli spettacoli teatrali organizzati durante la permanenza a Staryje Doroghi, la “casa rossa”, segno di una insopprimibile desiderio dell’animo umano di esprimersi attraverso l’arte. Il titolo “La tregua” si riferisce alla breve pausa fra una guerra e le successive, ma anche alla parentesi nella vita di Primo Levi costituita dagli assurdi mesi del viaggio verso casa. Il libro ebbe subito un grande successo e vinse la prima edizione del Premio Campiello, riaccendendo l’attenzione, in Italia e all’estero, anche su “Se questo è un uomo”. Da leggere, assolutamente, tutti e due.
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