Giorgio Manzi
ANTENATI
Il Mulino
2024, brossura
224 pagine, 16 euro
La rubrica “Homo Sapiens” di Giorgio Manzi è la prima che vado a cercare, ogni mese, sul nuovo numero de Le Scienze. Manzi insegna antropologia alla “Sapienza” di Roma ed è accademico dei Lincei. Da affezionato lettore, ben conoscendo la gradevolezza della sua scrittura, non mi sono perso questo suo nuovo saggio, in cui il paleoantropologo esamina dieci distinti casi di ritrovamenti di parti di scheletri di nostri antenati preistorici, raccontando come e dove sono avvenuti, come sono stati interpetrati i reperti in un primo momento e di che cosa ci si è convinti in seguito, come si sia andata elaborando, attraverso lo studio di calotte craniche o frammenti di bacino, o magari di denti, una teoria sull’evoluzione e della distribuzione del genere homo partendo dalle prime specie di ominini da cui discendiamo. La paleoantropologia nacque nel 1856, quando i lavori in una cava tedesca nella valle di Neanderthal portarono alla luce i resti di tre scheletri che sembravano umani ma chiaramente non lo erano. Nel 1864, un paleontologo irlandese, William King, trovò una collocazione tassonomica per i proprietari di quelle ossa, definendoli appartenenti a una specie umana estinta, l’homo neanderthalensis. Si scoprì poi che già negli anni Trenta del XIX secolo era stata rinvenuta in Belgio la volta cranica di un bambino che, tirata fuori dallo scaffale dov’era finita, venne attribuita appunto a un piccolo neanderthaliano. La stessa cosa accadde per un cranio femminile scoperto a Gibilterra. Oggi è ormai è chiaro che per millenni gli homo sapiens, ultimi arrivati in famiglia, hanno coabitato la Terra con diversi parenti (cugini più o meno lontani) e che è soltanto da quarantamila anni che siamo rimasti soli (forse anche per colpa nostra). Manzi racconta, davvero molto bene, del ritrovamento, avvenuto nel 1974 in Africa Orientale, dello scheletro di Lucy, una nostra trisnonna di 3,2 milioni di anni fa, che non aveva un aspetto propriamente umano, ma che già camminava su due gambe (era una australopithecus afarensis). C’è poi la storia del cosiddetto “ragazzo del lago”, scoperto nel 1984 sulla sponda del lago Turkana, in Kenya, i cui resti risalgono a un milione e 600.000 anni fa, che invece era già un “homo”, della specie Homo Ergaster; seguono le vicende del ritrovamento dei resti di strane creature, umane ma alte appena un metro, che abitavano l’isola di Flores, sperduta in mezzo al mare tra l’Indonesia e l’Australia (homo florisiensis). C’è spazio anche per l’Italia, con il resoconto della scoperta, avvenuta pressi di Frosinone nel 1994 dell’uomo di Ceprano, un homo heidelbergensis, che rappresenta una fondamentale testimonianza sia della progressiva espansione in Europa della grande famiglia a cui apparteniamo, sia della varietà di tipologie, manifestatesi nel corso dei millenni, dei nostri zii e cugini. Sempre italiani sono i resti di neanderthaliani rinvenuti sul Monte Circeo nel 1939; quelli scoperti nel 1993 in una grotta nei pressi di Altamura, in Puglia, identificati come vecchi di 150.000 anni; quelli di una mummia, divenuta molto famosa, emersa dai ghiacci delle Alpi, nei pressi della vetta del Similaun, sopra la Val Senales. Quest’ultimo ritrovamento, datato 1991, riguarda il corpo di un uomo del tutto simile a noi, vissuto oltre 5000 anni fa, in piena età del rame, conservatosi con tutta l’attrezzatura da viaggio che si portava dietro. Proprio le pagine con l’analisi degli abiti, le armi, il cibo, gli utensili, i tatuaggi di Oetzi (così è stato chiamato) chiudono lo stupefacente saggio di Giorgio Manzi, in cui si parla però anche di un falso reperto costruito ad arte per lucrare fama e denaro, rivenuto nel 1912 a Piltdown, in Inghilterra, il cui autore venne smascherato soltanto 41 anni dopo, grazie ai progressi della paleoantropologia.
ANTENATI
Il Mulino
2024, brossura
224 pagine, 16 euro
La rubrica “Homo Sapiens” di Giorgio Manzi è la prima che vado a cercare, ogni mese, sul nuovo numero de Le Scienze. Manzi insegna antropologia alla “Sapienza” di Roma ed è accademico dei Lincei. Da affezionato lettore, ben conoscendo la gradevolezza della sua scrittura, non mi sono perso questo suo nuovo saggio, in cui il paleoantropologo esamina dieci distinti casi di ritrovamenti di parti di scheletri di nostri antenati preistorici, raccontando come e dove sono avvenuti, come sono stati interpetrati i reperti in un primo momento e di che cosa ci si è convinti in seguito, come si sia andata elaborando, attraverso lo studio di calotte craniche o frammenti di bacino, o magari di denti, una teoria sull’evoluzione e della distribuzione del genere homo partendo dalle prime specie di ominini da cui discendiamo. La paleoantropologia nacque nel 1856, quando i lavori in una cava tedesca nella valle di Neanderthal portarono alla luce i resti di tre scheletri che sembravano umani ma chiaramente non lo erano. Nel 1864, un paleontologo irlandese, William King, trovò una collocazione tassonomica per i proprietari di quelle ossa, definendoli appartenenti a una specie umana estinta, l’homo neanderthalensis. Si scoprì poi che già negli anni Trenta del XIX secolo era stata rinvenuta in Belgio la volta cranica di un bambino che, tirata fuori dallo scaffale dov’era finita, venne attribuita appunto a un piccolo neanderthaliano. La stessa cosa accadde per un cranio femminile scoperto a Gibilterra. Oggi è ormai è chiaro che per millenni gli homo sapiens, ultimi arrivati in famiglia, hanno coabitato la Terra con diversi parenti (cugini più o meno lontani) e che è soltanto da quarantamila anni che siamo rimasti soli (forse anche per colpa nostra). Manzi racconta, davvero molto bene, del ritrovamento, avvenuto nel 1974 in Africa Orientale, dello scheletro di Lucy, una nostra trisnonna di 3,2 milioni di anni fa, che non aveva un aspetto propriamente umano, ma che già camminava su due gambe (era una australopithecus afarensis). C’è poi la storia del cosiddetto “ragazzo del lago”, scoperto nel 1984 sulla sponda del lago Turkana, in Kenya, i cui resti risalgono a un milione e 600.000 anni fa, che invece era già un “homo”, della specie Homo Ergaster; seguono le vicende del ritrovamento dei resti di strane creature, umane ma alte appena un metro, che abitavano l’isola di Flores, sperduta in mezzo al mare tra l’Indonesia e l’Australia (homo florisiensis). C’è spazio anche per l’Italia, con il resoconto della scoperta, avvenuta pressi di Frosinone nel 1994 dell’uomo di Ceprano, un homo heidelbergensis, che rappresenta una fondamentale testimonianza sia della progressiva espansione in Europa della grande famiglia a cui apparteniamo, sia della varietà di tipologie, manifestatesi nel corso dei millenni, dei nostri zii e cugini. Sempre italiani sono i resti di neanderthaliani rinvenuti sul Monte Circeo nel 1939; quelli scoperti nel 1993 in una grotta nei pressi di Altamura, in Puglia, identificati come vecchi di 150.000 anni; quelli di una mummia, divenuta molto famosa, emersa dai ghiacci delle Alpi, nei pressi della vetta del Similaun, sopra la Val Senales. Quest’ultimo ritrovamento, datato 1991, riguarda il corpo di un uomo del tutto simile a noi, vissuto oltre 5000 anni fa, in piena età del rame, conservatosi con tutta l’attrezzatura da viaggio che si portava dietro. Proprio le pagine con l’analisi degli abiti, le armi, il cibo, gli utensili, i tatuaggi di Oetzi (così è stato chiamato) chiudono lo stupefacente saggio di Giorgio Manzi, in cui si parla però anche di un falso reperto costruito ad arte per lucrare fama e denaro, rivenuto nel 1912 a Piltdown, in Inghilterra, il cui autore venne smascherato soltanto 41 anni dopo, grazie ai progressi della paleoantropologia.
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