venerdì 12 aprile 2024

STORIA DELLA COLONNA INFAME


Alessandro Manzoni
STORIA DELLA COLONNA INFAME
Sellerio
2020, brossurato
200 pagine, 12 euro

«La Colonna Infame venne eretta in Milano nel 1630, a ignominia di un barbiere e di un commissario di sanità condannati al taglio della mano, ad essere squarciati a brani con tenaglie roventi, rotti sulla ruota e sgozzati dopo sei ore di agonia. La peste desolava allora la città; e quei due miseri furono accusati di avere sparso veleni e malie per le strade ad accrescere la pubblica sventura. E a che pro? I posteri, vergognandosi della ferocia stolida dei loro maggiori, rasero la colonna innanzi la rivoluzione». Così spiega e riassume i fatti Ugo Foscolo, citato nella postfazione da Leonardo Sciascia. Va aggiunto il particolare che il lugubre monumento sorse nello spiazzo, nei pressi di porta Ticinese, dove sorgeva la casa di uno dei condannati, il barbiere Giangiacomo Mora, che venne abbattuta a somma ingiuria. Il tragico episodio di follia giudiziaria aizzata dalla superstizione del popolino rientra dunque nella cosiddetta “caccia all’untore” resa celebre dalla narrazione che ne fa Alessandro Manzoni dei “Promessi Sposi”. Ciò che colpisce, leggendo oggi la ricostruzione di quei fatti, è constatare come le assurde credenze di un complotto teso a decimare la popolazione non imperversavano soltanto nel Seicento, ma hanno attraversato i secoli fino ai nostri giorni. Sempre Sciascia riferisce quanto segue a proposito dell’influenza diffusasi subito dopo la guerra del 15-18: «Della “spagnola” si diceva fosse effetto di un conto da cui ancora risultava eccedenza di popolazione, essendo la guerra, per errato calcolo, finita un po’ prima di quanto doveva: e dunque la correzione, da parte dei governi, per quel tanto, né più né meno, che ci voleva a far tornare il conto. La convinzione che la mortalità fosse voluta e programmata dal governo era talmente radicata che ad opporvi il fatto che anche alti funzionari governativi ne morivano, la risposta era che “avevano sbagliato bottiglia”: che avevano cioè attinto al veleno invece che al controveleno». Anche nel caso del colera che imperversò in Sicilia tra il 1885 e il 1986 ci si convinse che ci fossero degli “untori”, e addirittura un maresciallo dei carabinieri, citato da Sciascia, scrisse in un libro di memorie: “Tutti lo credevano e, a dire la verità, anch’io penso che qualcosa ci fosse”. Riguardo alla peste di Milano del 1630, il Manzoni, nei “Promessi Sposi”, racconta di un anziano che, recatosi a pregare in Duomo, volle spolverare con un fazzoletto la panca su cui intendeva sedersi, e venne additato dai presenti come spargitore di veleni, e trascinato sul sagrato dalla folla per essere linciato. Volendo documentarsi nel migliore dei modi per scrivere il romanzo di Renzo e Lucia, il Manzoni rintracciò in archivi pubblici e privati una grande quantità di testimonianze d’epoca. S’imbatté perciò nella storia della Colonna Infame, decise di volerla approfondire e raccontare, ma capì che sarebbe stata una digressione troppo lunga se le sue ricerche fossero confluite nel racconto delle traversie dei due fidanzati, e perciò ne ricavò un saggio a parte (1840). Sciascia si meraviglia che il suo “piccolo grande libro” resti tra i meno conosciuti della letteratura italiana. Peccato, perché si tratta di un pamphlet di taglio giornalistico, una perfetta ricostruzione di un caso giudiziario, in cui il Manzoni racconta i fatti nulla trascurando, esamina le testimonianze, riporta gli interrogatori, smonta punto per punto le tesi dell’accusa, fa proprie le idee di Pietro Verri (1728-1797) nel suo saggio “Osservazioni sulla tortura” (1777). Le confessioni di Guglielmo Piazza (il primo sventurato arrestato e costretto a fare i nomi di complici che non aveva) e di Giangiacomo Mora vennero estorte sotto le più crudeli torture, e i disgraziati accettarono di confermare tutto ciò che gli inquisitori volevano che dicessero, salvo ritrattare, inascoltati, fin sul patibolo. Memorabile l’inizio della cronaca dei fatti: “La mattina del 21 giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d’un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini, vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteva su le mani che pareva scrivesse”. Guglielmo Piazza scriveva davvero, ma essendosi macchiato le dita d’inchiostro, cercò di pulirsele sfregandole contro un muro. Ed ecco le parole della donnicciola: “mi venne in pensiero se a caso fosse un poco uno di quelli che andavano ungendo le muraglie”. Un untore, insomma, di quelli che tutti credevo spargere la peste per non si sa quale complotto. In quel “per disgrazia” che dà inizio alla “Storia della Colonna Infame” c’è tutto il senso della perfetta ricostruzione manzoniana di uno dei caso giudiziari più terribili della storia moderna.

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