Giovanni Pascoli
I CANTI DI CASTELVECCHIO
Oscar Mondadori
1967, brossurato
230 pagine, 350 lire
E’ il mio poeta preferito, il Pascoli. Preferito perché cultore della forma (metrica sempre perfetta, architettura delle composizioni varia ma rigorosa), ma mai artefatto; anzi attento ai moto dell’animo, appassionato, empatico, umano, sensibile, acuto osservatore delle piccole cose. Colto e letterario, pieno di echi e di rimandi, ma lontano dall’Arcadia. Moderno, psicanalitico ante litteram (ma anche post litteram), è talvolta addirittura sensuale se non addirittura audace (“Il gelsomino notturno”, “Digitale purpurea”). Non sa mai di muffa. Ne ho parlato altre volte su questo blog. L’etichetta che gli si mette a scuola è che il Pascoli sia il poeta del Fanciullino, dal titolo di un suo breve saggio del 1897. A patto di intendersi su che cosa sia il Fanciullino e di non limitarsi a questa definizione, il rimando a quello scritto serve a orizzontarsi.
Secondo il poeta di Castelvecchio la poesia non è “logos”, cioè razionalità, ma consiste in una perenne capacità di stupore tutta infantile, in una disposizione irrazionale che permane dentro di noi anche quando siamo cresciuti. Il Fanciullino dentro si noi “alla luce sogna o sembra sognare ricordando cose non vedute mai, parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle nuvole, popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei”. Il bambino crede alle favole, crede alla mia, crede all’evocazione. Sente il potere del mistero, dei suoni, della musica; è in comunione con la natura. Sovvertendo le norme dell’angusto e realistico buonsenso che regola la nostra vita, il Fanciullino “rimpicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare”. Questa disposizione alogica (una sorta di sguardo obliquo) fa sì che si scoprano nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose. E non è necessario che le cose siano insolite o grandiose: anche nelle cose quotidiane o famigliari si scoprono significati nelle cose. Di qui il rifiuto pascoliano, in verità non sempre rispettato, della “letterarietà” per avvicinarsi allo “spontaneità” del linguaggio comune.
Tuttavia il poeta non è mai naif, vi si atteggia. Il suo enorme background culturale non viene mai meno. Persino ne “La cavalla storna” cita Omero senza farsene accorgere. Ho studiato “I canti di Castelvecchio” per un anno accademico intero, ai tempi dell’università, con il professor Mario Martelli (con cui poi mi sono laureato) e ogni lezione era una scoperta: frequentavo con gioia l’aula di Letteratura Italiana. Di recente, ho riletto i “Canti” e la gioia si è rinnovata. Perciò ho rispolverato qualche appunto e mi sono provato a dare ordine a quel che ho ritrovato.
Non si può non partire da qualche nota biografica. Del resto il Pascoli è stato per tutta la vita un poeta autobiografico. E si sa che la sua vita è stata segnata dall’assassinio del padre, avvenuto a San Mauro di Romagna il 10 agosto 1867. Questa morte, a cui ho dedicati un articolo sul blog “Freddo Cane in questa palude”, fu solo l’inizio di una serie di tragedie che in pochi anni si abbatterono sulla famiglia Pascoli, fino ad allora così unita e felice. Di lì a poco morivano prima, di tifo, la appena diciottenne sorella Margherita (13 novembre 1858), poi la stessa madre, che mai si era rimessa dal grande dolore della perdita del marito (18 dicembre dello stesso anno). Giovanni, (classe 1955) e i suoi fratelli Giacomo e Luigi avevano fino ad allora frequentato il collegio “Raffaello” di Urbino, diretto dai padri Scolopi; Giovanni, in particolare, aveva acquistato una salda cultura classica. Adesso le difficoltà finanziarie impedivano ai fratelli il proseguimento degli studi nell’Istituto urbinate. Con la morte di Luigi, avvenuta per meningite il 19 ottobre 1871, all’età di 17 anni, Giacomo e Giovanni abbandonano definitivamente il collegio e nello stesso novembre si trasferiscono a Rimini con la famiglia. A Rimini, Giacomo, il fratello maggiore, fu costretto a trovare lavoro ed a trasformarsi in “piccolo padre”, mentre Giovanni continuava a frequentare il liceo. Grazie all’aiuto di un suo vecchio maestro, padre Cei, Giovanni poté entrare nel collegio “San Giovanni” di Firenze e completare lì gli studi liceali, per poi frequentare a Bologna la facoltà di lettere, dopo aver vinto una preziosa borsa di studio – che però gli fu tolta allorché partecipò a una dimostrazione studentesca contro il ministro della Pubblica Istruzione, Ruggero Borghi, in visita all’Università. La serie di disgrazie continuò con la morte del fratello Giacomo, anch’essa avvenuta per tifo, il 12 maggio 1876. Giovanni diventò, per forza di cose, il capofamiglia. Ma la famiglia si era dispersa, il “nido” era distrutto, e ormai da tempo.
Non occorre seguire ulteriormente la cronologia delle vicende biografiche d Giovanni Pascoli, dalla prima esperienza politica presto abbandonata, alla laurea conseguita nel 1882; dai suoi successivi spostamenti per l’Italia (fino al suo definitivo stabilirsi a Castelvecchio di Barga), alla storia dei suoi rapporti con i fratelli e soprattutto con le sorelle Ida (il matrimonio della quale gli provocò un lungo “squilibrio nervoso” perché veniva ad intaccare il mito dell’unità familiare) e Maria (che venne poi ad abitare con lui). Non occorre, perché gran parte della psicologia del Pascoli è già venuta a formarsi, i caratteri che poi saranno i fondamenti della sua opera poetica si sono già costruiti.
Se il Pascoli è il poeta del Fanciullino, il Fanciullino è l’infanzia del nido non disfatto, la famiglia prima dell’uccisione del padre, prima dell’intervento brutale degli uomini e della storia che la disarticola. E’ nel traumatizzante succedersi di drammatici eventi, che bruscamente strapparono la Pascoli l’affetto delle persone e delle cose più care e la rasserenante sicurezza del nido familiare, l’origine del bisogno del poeta di ricercare nelle cose il loro aspetto più intimo e segreto, e di condurle fuori dalla realtà spazio-temporale della storia colpevole di aver infranto, con i drammi e le necessità del contingente, la serenità di un nucleo di affetti e sensazioni che sembravano eterne.
Le parole vengono svuotate del loro senso immediatamente contenutistico, e assumono sfumature di mistero: la realtà delle cose viene offuscata e trasformata attraverso un filtro ed una visione onirica, che permettono l’acquisizione di una dimensione diversa, quasi archetipica, realizzata nella poesia. Le cose vengono viste al di fuori della loro dimensione reale, fino ad assumere caratteri eterni e nello stesso tempo dimessi, privati, intimi. Il ripetersi delle immagini della casa-nido, delle morti, delle dolorose memorie familiari diventa quasi ossessivo, come se non ne fosse estranea una componente nevrotica.
Il tema del ricordo, che permea tutta la produzione poetica pascoliana conferendole il caratteristico bisogno di collocazione eterna e segreta delle cose, delle immagini e degli affetti, al riparo dalla violenza operata dalla storia, si manifesta più palesemente in alcuni componimenti come profonda necessità di recuperare con la poesia uno stato di cose ormai irrimediabilmente perduto.
Una sezione dei “Canti”, collocata in appendice e chiamata “Ritorno a San Mauro” (in tutto nove componimenti), costituisce l’unica testimonianza superstite di una serie di “Canti di S. Mauro” che il Pascoli aveva promesso nella prefazione ai “Primi Poemetti”, datata 5 giugno 1897, ma che non furono mai realizzati. Essi rimasero, appunto, in questa forma assai ridotta. Pascoli tornò veramente in visita a S. Mauro, nel maggio del 1897, ma certo comunque che tutta l’opera poetica del Pascoli fu, in forma più o meno consapevole e più o meno accentuata, un continuo ritorno in quell’ angolo di Romagna. O forse potremmo dire che, nell’intimo del suo cuore, da S. Mauro Pascoli non si era mai mosso: tutta la sua poesia potrebbe essere solo un disperato aggrapparsi ad un “nido” che nella realtà non esisteva più. La quercia che cade lascia una capinera senza nido, il tuono che rimbomba rimbalza e rotola cupo cede il posto ad un canto di madre, la cantilena di una nonna si tramuta nella sicurezza del “nido” familiare per il bambino nella zana che dondola piano piano: e potremmo continuare.
E’ del resto lo stesso Pascoli che lo nota, e ne fornisce quasi una scusa, o una giustificazione, allorché nella prefazione del marzo 1903 ai “Canti di Castelvecchio” scrive: “Devo chiedere perdono, anche questa volta, di ricordare il delitto che mi privò di padre e madre, e via via, di fratelli maggiori, e d’ogni felicità e serenità nella vita? No: questa volta non chiedo perdono. Io devo (il lettore comprende) io devo fare quel che faccio. Altri uomini, rimasti impuniti e ignoti, vollero che un uomo solo innocente, ma virtuoso, sublime di lealtà e bontà, e la sua famiglia, morisse. E io non voglio. Non voglio che sian morti. Se poi qualcuna di queste poesie… ispirasse un più acuto ribrezzo del male, io, oh!, non me ne terrei io, ma ne benedirei la memoria dei miei cari martiri, per i quali nessuno (nemmeno i loro assassini) soffrì, e che dalle loro fosse rendono anche oggi, per male, bene”.
“Un ricordo”, “Il ritratto”, “Un nido di farlotti” costituiscono una vera e propria “cronaca familiare”, dove, alla rievocazione dei momenti immediatamente precedenti e susseguenti la tragedia della morte del padre, si intrecciano i temi della premonizione e del presagio luttuoso. Ne “La cavalla storna”, invece, la stessa scena acquista una dimensione diversa, più ampia, oracolare e magica, attingendo ulteriori significati.
“Un nido di farlotti” presenta la scena di casa Pascoli, a S. Mauro, un mese dopo l’assassinio del capofamiglia: la moglie distrutta dal dolore e gli orfani abbandonati appaiono agli occhi commossi di un popolano proprio come una spaurita nidiata di uccellini. E’, se si vuole, un’immagine paragonabile al nido della rondine che, nella celebre poesia “X Agosto”, raccolta in “Myricae”, cade uccisa tra le spine, con ancora nel becco un insetto per i suoi rondinini, così come il padre portava alle figlie un paio di bambole comprate alla Fiera di Cesena: e le stelle cadenti della notte di S. Lorenzo appaiono al poeta il pianto del cielo sulla malvagità di questo mondo.
Il contenuto di “Un ricordo” è invece così esposto da Benedetto Croce: “Il padre del Pascoli fu assassinato, una sera, sulla via campestre, mentre tornava alla sua casa. La mattina di quel giorno d’inenarrabile strazio e di terrore, l’ultima volta che i suoi lo videro vivo, è ricordata in ogni minimo particolare: con quel perduto dolore dell’animo che dice: potevamo non lasciarlo andare via, quel mattino, e sarebbe ancora tra noi! E la memoria scopre, o l’illusione fa immaginare, particolari quasi profetici. Il padre stava per salire sulla carrozza, circondata dai suoi, dalla moglie, dai figli grandi e piccini, che escono sulla strada a salutarlo. Ma, nell’appressarsi che egli fece al cavallo, ‘la più piccina a lui toccò la mazza’. Gli prese il bastone, come per tirarlo indietro, e ruppe in pianto. Non voleva ch’egli andasse via: non voleva così, irragionevolmente, come bambina che era; ed egli dovette ingannarla, per acchetarla: farle credere che rientrava in casa e riuscire da un’altra porta. Quella manina di bimba è indimenticabile”.
Lo stesso si può dire della poesia “Il ritratto”, la quale presenta una notevole comunanza di elementi, a partire da quello del presagio, qui costituito dalla improvvisa e immotivata interruzione delle pittura di un ritratto del padre che Giacomo Pascoli stava eseguendo ad Urbino, dove si trovava a studiare con i fratelli, nella stessa ora in cui Ruggero veniva ucciso.
Siamo di fronte dunque ad una ulteriore costante pascoliana: se il carattere dimesso della poesia del poeta è volto a ricercare gli elementi più intimi ed eterni delle cose, in una visione pessimistica della realtà, e se ciò, insieme al ripetersi ossessivo di certe immagini e certi temi, ha una origine in cui si può rintracciare una componente nevrotica, da notare è che tutto questo assume una forma poetica a dir poco singolare. Una apparente semplicità ed un fascino d’immediata percezione ottenuto con metri, artifici retorici, richiami classici che di naif e di primitivo non hanno proprio nulla
“La cavalla storna” fu una delle ultime poesie composte per i Canti di Castelvecchio, e pubblicata fin dalla prima edizione del 1903. Si tratta di una delle opere pascoliane più popolari e sentimentalmente più celebri. E’ facile intuirne i motivi: la chiave di lettura più immediata è facilmente accessibile ad ogni categoria di lettori; il patetico, il melodramma, la storia di lacrime, sangue e mistero, il tono narrativo e la struttura, la stessa orecchiabilità del metro colpivano e commovevano la sensibilità popolare. Tuttavia, letta con attenzione, "La cavalla storna" rimanda direttamente a Omero, e al cavallo parlante Xanto che rivela ad Achille il nome dell'uccisore di Patroclo. Ci sono persino precise citazioni testuali dei versi omerici.
“Valentino”, un altro grande classico, commuove perché vediamo il ricco poeta, ammirato dal mondo, a cui non manca nulla, invidiare in silenzio la spensieratezza del povero contadinello che cammina senza scarpe, a piedi nudi, come un uccello: “come l’uccello venuto dal mare, / che tra il ciliegio salta, e non sa / ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare, / ci sia qualch’altra felicità”. Ci sono poi tutti i versi onomatopeici che il Pascoli si inventa per replicare i suoni della natura, c’è l’osservazione della natura, il meravigliarsi di fronte al mistero, lo stupore per il rinnovarsi del ciclo delle stagioni o della vita (in “Ov’è?” il titolo stesso interpreta in forma di domanda, la domanda che il bambino appena nato si pone, il pianto del neonato). Ma il capolavoro resta “Il gelsomino notturno”, e qui rimando a una analisi più dettagliata che ho già scritto a suo tempo.
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